A colpi d’ascia
Emma Cortesi

Per chi, come me, si siede sulla seggiola con un corpo socializzato donna, lo stupro non è un argomento, un nucleo tematico o un topos narrativo.

È un trauma collettivo e al contempo inappropriabile, è la penna dalla punta dura e sottile che ha disegnato i nostri corpi perché fossero guardati, commentati, controllati.
Rapeflower di Ana Humeda e Boujloud (Man of skins) di Kenza Barrada sono lavori che si prendono la responsabilità di cercare un’estetica in grado di lasciare intatta l’esperienza della violenza sessuale, di calarla in una personalissima forma che racconta come ci portiamo dietro quella storia. Questo sforzo, la ricerca di un modo sostenibile per condividere ciò che si è vissuto, è commovente nel senso letterale del termine: fa sì che i corpi prendano a muoversi insieme.




foto Pietro Bertora

Boujloud, il mostro legato alla tradizione marocchina metà uomo e metà bestia, la creatura vestita di pelli animali in cui Kenza Barrada si insinua, illumina un dettaglio inquietante: l’aspetto più spaventoso dei mostri è che non esistono.
Lo stupratore è un cugino più grande e neanche maggiorenne, è il datore di lavoro, è l’amante che aveva promesso di aspettare il momento in cui saremmo state pronte.
La mostruosità più evidente che accomuna questi uomini non è tanto l’efferatezza delle loro azioni, quanto la normalità anonima che il loro ruolo esprime nella vita della persona che hanno violato.
Ricoperta dalle tante pelli del Boujloud, Barrada è tutte le donne della sua famiglia che ha interrogato mentre conduceva la sua indagine sul consenso. La sagoma sformata delle sue spalle, la pelle tinta di terra, la voce trascinata con fatica sulle parole che vanno dette, mostrano come anche il corpo violato subisca un processo di mostrificazione nel momento in cui le sue reazioni dovessero essere considerate eccessive (cioè più o meno sempre).
Ma se queste storie non vengono raccontate, se le esperienze vengono diminuite per non turbare i responsabili, non scopriremo mai cosa rimane di noi, per questo Dobbiamo abbattere con un’ascia il pudore.


A proposito di pudore: la danza jiutamai performata dall’artista giapponese polacca Ana Humeda. Mentre esegue i passi, una serie di istruzioni compaiono in successione a descrivere come quella danza dovrebbe essere eseguita.
Si delinea una sovrapposizione via via sempre più chiara tra il bon ton della jiutamai e quello suggerito a una persona socializzata donna durante la sua educazione: la compostezza, il senso della misura e il pudore propri di quei passi nascevano proprio con lo scopo di allenare all’etichetta femminile.
Humeda visita i gesti e la postura richiesti da questa arte (che lei pratica da anni) in una silenziosa e potente protesta, di cui subito è visibile un primo segno, la nudità. Una serie di personagge dipinte da Artemisia Gentileschi vengono proiettate sulla sua pancia, sulle sue gambe, sul suo petto, e attraverso il suo corpo parlano. Al tempo stesso è il corpo violato che riprende parola, che rompe il silenzio.
Il pudore, dunque, è stato abbattuto a colpi d’ascia. Ecco cosa rimane. 




foto Pietro Bertora



BOUJOULD (man of skins)

Boujloud, l’Uomo dalle Pelli, è una figura mascherata presente nei rituali ancestrali del Marocco. Incarna una creatura ibrida tra l’umano e l’animale. Ispirandosi a questo personaggio e alle celebrazioni in cui la maschera diventa un elemento di transizione tra mondi diversi, Kenza Berrada si fa narratrice, indossa la pelle degli altri e riporta le parole delle vittime di abusi, dell’aggressore e dei testimoni, facendo emergere le contraddizioni della società marocchina. Cosa significa indossare una pelle che non è la propria? Come il corpo può raccontare storie di trasformazione e resistenza? Partendo da una ricerca coreografica su identità e metamorfosi, Berrada dà vita a una figura liminale, sempre sul punto di diventare qualcos’altro, un corpo che attraversa i limiti del tempo, del genere e dell’età. In scena, la metamorfosi avviene attraverso la danza e il suono: il tamburo funge da guida e imprime al corpo il suo ritmo. Tra il dentro e il fuori, il visibile e l’invisibile, “BOUJLOUD (man of skins)” esplora la tensione tra l’identità imposta e quella in continua mutazione.

Bio
Kenza Berrada nasce a Rabat. Cresciuta in Marocco, a 13 anni sognava di diventare antropologa, affascinata dai volti dell’umanità visti in un’enciclopedia. All’età di 17 anni si trasferisce a Parigi; consegue un Master in letteratura alla Sorbona e allo stesso tempo frequenta corsi di formazione in arti sceniche e danza africana. Artista multidisciplinare, sviluppa un linguaggio che unisce corpo, spazio e memoria, esplorando i confini tra realtà e metamorfosi. Oltre a “BOUJLOUD (man of skins)”, firma “Mère, fils” al Théâtre de l’Odéon (Parigi) ed è attualmente al lavoro sulla sua prossima pièce “Paradis plage (une vie comme dans du miel)” per il National Theater of Strasbourg che debutterà a settembre 2026.


RAPEFLOWER

Quanto tempo occorre per liberare un corpo segnato dalla violenza? Come raccontare lo stupro senza filtri? “RAPEFLOWER” è un’indagine che si svolge nel corpo; non nelle parole ma nella carne, dove s’intrecciano l’esperienza dell’abuso sessuale – vissuta, ereditata, appresa – e le strategie di difesa e sopravvivenza. Hana Umeda, che ha vissuto questa esperienza in prima persona, racconta lo stupro come condizione, non come singolo evento. Sopravvivere a una violenza sessuale significa spesso rimanere in silenzio. Per evitare che sul proprio corpo vivo venga proiettata la figura della vittima, per paura di diventare oggetto di pietà, si diventa invisibili. Evitare il confronto rischia però di ripetere l’eco della violenza subita, nel tentativo di riconquistare il controllo. La performance attinge alla danza jiutamai, arte giapponese del XIX secolo eseguita esclusivamente da donne, molte delle quali probabilmente subirono abusi negli spazi chiusi delle loro esibizioni. Come Artemisia Gentileschi, che trasformò il trauma della violenza vissuta in pittura, Umeda mette in scena il suo corpo violato, cercando nella danza uno spazio di liberazione.

Bio
Hana Umeda è performer, regista e danzatrice, Natori (maestro) della scuola Jiutamai Hanasaki-ryu. Si laurea presso il SODA Master of Arts dell’HZT – Berlin University of the Arts e all’Institute of Polish Culture. È stata membro del collettivo The Centre in Motion. Nel 2018 ottiene la borsa di studio Młoda Polska del National Centre for Culture, debuttando come regista presso Komuna Warszawa. Nel 2023 è nominata al concorso IDFA DocLab: Phenomenal Friction per il progetto “Close”, un’opera VR che ha avviato la sua ricerca sulle tracce intergenerazionali della violenza sessuale.