Cantare l’Indicibile - Bell End
Alex Dellapasqua



foto Pietro Bertora

Una doverosa premessa. Ci sono lavori teatrali che resistono alla narrazione, che sfuggono a ogni tentativo di essere restituiti per iscritto, perché la loro potenza risiede nella forma viva e incarnata della scena. Bell End è uno di questi. È uno di quei lavori che ricordano, con urgenza e gratitudine, perché il teatro continua ad essere necessario. Nulla può sostituire la potenza del dispositivo performativo creato da Mathilde Invernon, nella sua capacità di smuovere, destabilizzare e inquietare profondamente.
Bell End non educa, non spiega, non predica. Invece, disturba. E proprio in questo disturbo risiede la sua forza. Attraverso la ripetizione, la saturazione e la caricatura, la performance costruisce una grammatica dell’eccesso che rende visibile ciò che solitamente si nasconde sotto la soglia della rappresentabilità. È una pedagogia dell’inquietudine che ci insegna a sentire l’inaccettabile. L’ironia, il corpo grottesco, la ventriloquia e il suono spaesante non sono elementi decorativi, ma dispositivi critici che destabilizzano il rapporto tra segno e senso.
Le righe che seguono provano dunque a descrivere, per quanto possibile, ciò che accade in scena, con la consapevolezza che ogni tentativo di racconto ne sarà inevitabilmente un’eco distante, una traccia sfocata.


Bell End si inscrive in quella zona di confine tra gesto politico e sperimentazione performativa in cui il corpo, il suono e la parola diventano strumenti di disvelamento e sabotaggio delle forme egemoniche del potere. Il bersaglio dichiarato è la mascolinità tossica: non come entità astratta o costrutto ideologico distante, ma come presenza concreta, banale, quotidiana – il connard – che abita i corpi, le frasi fatte, le camminate, i rutti, le gambe allargate e le mani che toccano senza chiedere.
Ma la performance compone una contro-coreografia della dominazione maschile, in cui l’ironia diventa strategia di resistenza, e il grottesco si fa dispositivo epistemologico. Il corpo maschile viene evocato nella sua performatività sociale: un assemblaggio di gesti, suoni e posture che vengono esasperati fino al punto di collasso semantico. L’effetto è uno straniamento che provoca, inizialmente, un’imbarazzante risata. 
Nella prima parte dello spettacolo, le performer mettono infatti in scena una parodia iperbolica della virilità. Il corpo è costantemente fuori misura: ampio, sgraziato, invadente. Le movenze sono caricature sessualizzate, le interiezioni verbali – rutti, grugniti, schiocchi – diventano una drammaturgia sonora del fastidio. La scena si trasforma così in uno spazio di rumore, in cui il maschile è fatto esplodere nella sua versione più triviale e riconoscibile. Ma questa triviale riconoscibilità è precisamente il cuore del problema: Bell End mostra come la violenza sistemica passi attraverso il quotidiano, attraverso ciò che viene considerato “normale”, “maschile”, “spontaneo”.
Segue poi una fase di disarticolazione. Le performer si pongono l’una di fronte all’altra in una non-conversazione. Guardano nel vuoto, pronunciano frasi spezzate, catcall riciclati, insulti, interiezioni, versi: tutto risuona, ma niente si connette. Una pluralità di voci che non si armonizzano – come una folla di echi violenti che abitano lo spazio sociale. La mancanza di dialogo reale tra le due performer è rivelatrice: non c’è scambio, ma solo un rumore di fondo.
Infine, il climax: le due voci si uniscono in un’unica cantilena infantile. La forma è quella della filastrocca, evocativa di un mondo innocente, ludico, fanciullesco. Ma il contenuto è lacerante: si parla di abuso. Il contrasto genera un cortocircuito estetico e politico. La violenza è cantata, e quindi resa ancora più disturbante, perché nega ogni distanza. La cantilena non protegge, espone. E in questo chiasmo fra forma innocente e contenuto devastante, Bell End colpisce il suo bersaglio più profondo.
Mathilde Invernon non offre una via di fuga, né una catarsi. Non cerca di risolvere, ma di scompaginare. È una forma di conoscenza incarnata, in cui la critica non passa nello spiegare la mascolinità tossica, ma nel farla sentire – sulla pelle, nei nervi, nello stomaco.

E allora, forse, questo è il suo gesto più politico: costringerci a restare nella complessità, senza soluzioni rassicuranti. Aprire un varco, disturbare la superficie liscia del senso comune, e lasciare che il teatro, ancora una volta, ci metta a disagio.



foto Pietro Bertora



BELL END 

“BELL END” è una performance fisica, sonora e politica che smaschera e sovverte la mascolinità tossica. Attraverso l’umorismo, la ripetizione e la saturazione, trasforma il fastidio in consapevolezza e l’ironia in uno strumento di potere e resistenza. Partendo dalla figura del connard, tanto banale e quotidiana quanto presente nei gesti, nelle parole, nei tipici atteggiamenti maschili che dominano e impongono, le performer in scena ribaltano il punto di vista: non sono più oggetto dello sguardo dominante, ma lo osservano, lo decostruiscono e lo fanno proprio creando un alfabeto di micro-gesti e micro-parole che incarnano il comportamento del connard. Posture sgraziate, sguaiate, costumi volutamente sformati compongono la presenza di un corpo comico, fastidioso, che occupa lo spazio in modo invadente, cui fa eco una traccia sonora che unisce l’uso di parole banali e interiezioni a tecniche di ventriloquia, creando una sensazione di spaesamento e disconnessione.

Bio

Mathilde Invernon è un’attrice e danzatrice franco-spagnola con base in Svizzera. Dopo aver studiato danza e teatro al conservatorio di Parigi, nel 2019 ottiene un Bachelor in Teatro presso La Manufacture – Haute école des arts de la scène, a Losanna. Lavora come interprete in produzioni teatrali, coreografiche e cinematografiche. Tra gli altri, ha recitato per La Ribot, Kuro Tanino e Delphine Lehericey. È ideatrice di diverse produzioni performative tra cui “À partir de ce jour”, “Feelings”, “El Intruso”, “Let’s Pretend” e “The Bath”. È direttrice artistica della Compagnie Carmen Chan, di cui “BELL END” è la prima creazione.