COSASAIDIQUELCHE NONSAI
Alessandra Cussini



foto Pietro Bertora


In nessun caso di fronte a un’opera d’arte o a una forma d'arte
 si rivela fecondo per la sua conoscenza tener conto di chi la riceve.
Walter Benjamin, Il compito del traduttore

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The most violent element in society is ignorance. Emma Goldman




La postura di Diana Anselmo, artista queer sordo, separabile o meno dalle virgole, è una piegatura, un drappeggio, benintesa come forma del corpo che si protende verso l’esterno, un girasole con le radici.
La sua opera considera la sordità quale punto di radicamento interno, partenza per un fotoromanzo leggibile da tuttx, una lingua del corpo che col corpo assume sembianze d’ordine, di fuoco, di sangue, di vicinanza.
Diana si preoccupa, in un processo eterodiretto che mantiene intatta la sua matrice di sordo segnante, dell’accessibilità che ogni giorno non riceve.
Non è un atto sacrificale, ma una pratica di cura.
Noi che sentiamo il carico del silenzio, dell’assetto didascalico, che ignoriamo l’ironia del segno, della scatola visiva, che non ci accorgiamo della vibrazione ma solo del suono, che non attraversiamo il substrato della non udibilità, siamo comunque accompagnatx alla comprensione dell’opera, apertx alla fruizione di un nuovo modo di vedere la parola, la lingua.
“Immagina che MIO non sia un aggettivo possessivo ma un segno che
avvicina la mano al cuore e dice di un’intera compagine, di un’intera comunità, di una minoranza, in un contesto di fiducia, vicinanza, riconoscimento”
La parola, IL SEGNO, prende lo spazio del silenzio che continuiamo a sentire taciuto, lo abita, lo investe, lo rende carne, ne colma l’espressività coi movimenti del volto, col rituale dello stare, che accompagna ad un the a sei mani, si prende il tempo per sorseggiare e spiegare, si prende il tempo per pensare.
La didascalia perde senso quando si sta nella lingua, diviene uno spazio di disconnessione dello sguardo, uno strabismo della vista, è la valigetta bianca con la croce per il nostro povero mondo di udenti che replica sillabe come i barbari all’innesto della parola.
Mentre tentiamo di pronunciare ba ba ba, Diana ha già aperto e chiuso un discorso intero, con il corpo intero.
In una democrazia della scena (le persone sorde segnanti dialogano in un cerchio invisibile una alla volta senza pratiche di sottomissione, senza prevaricazione, il loro turnarsi nella parola segnata è un pas de deux / de trois che si fa solo insieme e che non contempla la violenza dei corpi) noi udenti restiamo spettatorx di qualcosa che non è solo una lingua altra, ma un mondo che può essere spiegato solo se siamo noi, per una volta, ad avvicinarci e a studiare, stare in un compendio storico, socioculturale senza avere l’idea di saperne qualcosa.
Se decidiamo di prendere parte ad una lingua, decidiamo di prendere parte ad un mondo esteso che la esplica, la narra, la significa, ne accompagna l’evoluzione in perenne cambiamento.
La LIS è una lingua del corpo e il corpo sordo è vivo, mutante, fa specchio riflesso in un continuo inda fora, il processo di germinazione del sud che nel suo dialetto prende fuoco e scalda, parla di cose materiche.
Pas moi è uno spettacolo per chi ignora la profondissima dimensione di un mondo, che nel suo ego politico si assume la rabbia dolcificata di raccontare l’ingiustizia di un bisogno normalizzante, della tensione ad una traduzione lineare, udibile da tuttx allo stesso modo.
Se un suono nasce, allora il fascismo dell’ascolto lo deve rendere riproducibile e udibile, abitabile dall’orecchio, assorbibile.
Se l’orecchio non si rende disponibile all’intercettazione del suono, allora va operato, tradotto, rotto, tradito, medicalizzato, medicato, guarito.
Diana, forte della sua intelligenza, del suo attivismo e coeso con la sua comunità di appartenenza, fa fratellanza del suo corpo esperienziale e sancisce con infinita delicatezza, meticolosa precisione ed ordine, ironia e nessuna spocchiosa supremazia sociolinguistica la nostra ignoranza.





foto Pietro Bertora



Pas Moi

“Pas Moi”, nuova lecture-performance dialogata di Diana Anselmo, è il capitolo conclusivo di una ricerca documentale e affettiva che smaglia la trama di potere e dominazione tessuta nella storiografia maggiore. Se “Je Vous Aime” mostrava le implicazioni rieducative delle prime immagini in movimento, “Pas Moi” segue un percorso parallelo e, da una prospettiva Sorda e segnante, esplora la genesi dei primi strumenti di registrazione, trasmissione e riproduzione del suono. Attraverso archivi minori, antistorie e saperi situati, trasmessi corpo-a-corpo, i celebrati apparecchi all’origine della futura industria cinematografica e musicale si rivelano strumenti concepiti con un intento audista e fonocentrico: guarire la sordità. Malattia da eradicare o far sparire nelle maglie del mondo udente, più che un’identità, una cultura con una propria lingua e una comunità. “Pas Moi” prova a immaginare dove si può arrivare se un altro è il punto di partenza. Al di là della mancanza di udito, più in là, e più lontano ancora.

Bio
Diana Anselmo è performer e artista visivo queer e Sordo, attivista ed essere umano improvvisato. Bilingue LIS e Italiano, debutta con la lecture “Autoritratto in 3 atti” (2021), realizzando repliche italiane e internazionali. All’estero esordisce a Berlino con “Le Sacre du Printemps” (2022) di Xavier Le Roy. Nel 2023 realizza la lecture “Je Vous Aime”, che nel 2024 acquisisce forma espositiva con una personale a Fondazione Sandretto Re Rebaudengo. Attualmente è rappresentato dalla Galleria Eugenia Delfini. Nel 2024 attiva anche la collaborazione con la dancemaker Cristina Kristal Rizzo, con cui è co-autore della performance “Monumentum DA”. Diana è tra i fondatori di Al.Di.Qua. Artists, prima associazione europea di categoria di/per artistə con disabilità.