Donkey (iteration for Supernova)SANDSMARK/FINDLAY
foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli


Restituzione mediata da una passeggiata sul lungomare di Rimini scappando da me stess3 
Corsa da Viale Tripoli fino alla ruota panoramica sul porto e ritorno abusivo lungo la battigiae
Potito Forte

       
foto di Potito Forte


Findlay//Sandsmark è una performance company norvegese che lavora in un esercizio combinatorio tra danza, teatro, installazione e video arte. Con Donkey, si entra sommessamente in una semiosfera apparentemente coerente, ma fortemente contradditoria: le categorie del gioco, dell’esperienza ludica associata all’infanzia, vengono a scontrarsi con l’esercizio quotidiano della vita media del lavoratore-operaio, che è il Sisifo della storia contemporanea. L’uomo plasma e produce la materia che gli sta intorno, producendo effettivamente le condizioni materiali del suo vivere, ma è la ripetitività dei gesti che implica l’alienazione. 

Tramite Donkey, si assiste a una seduta performativa dove il tempo non esiste, è fermo e inesistente e lo spettatore è chiamato a entrare e resistere alle nuove condizioni spazio-temporali che vengono a crearsi. Per la performance, messa in scena nella Sala Ressi del Teatro Galli, si è stati accolti in un’esperienza circolare: il cerchio come simbolo di ciclicità, ma anche monotonia e abulìa che ne sono conseguenti. A chiusura del cerchio, a costituirne il perimetro, sono riportate alcune frasi (impastate in una polvere dalle tinte neon) che invitano alla fuga dal presente, a un recupero del proprio e vero io interiore, affinché si riesca a lavorare in senso comunitario e relazionale con dei veri elementi di corrispondenza, piuttosto che in condizioni di passività. Nel centro del cerchio, scorre rapida una dream machine, creazione degli inventori Brion Gysin e Ian Sommerville. L’effetto psichedelico di questa macchina, progettata tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, per indurre esperienze trascendentali a occhi chiusi, alimenta il primo effetto di ciclicità spossessata nelle geometrie della performance. 

In un’intimità luminosa appena percepibile, ad eccezione del cerchio-setting, vi sono pochi elementi di contorno a definire lo spazio, tra cui lo scheletro metallico di una seduta, avvolto da un panneggio bianco con una luce all’interno, e un cartone bianco con dei pseudofossili dalle forme irregolari a farne da tappeto. Marit Sandsmark è la protagonista di Donkey: vestita di una giacca a vento e salopette senape, nelle vesti di un’apparente minatrice, ma anche con la gestualità dell’infanzia, introduce alla narrazione scenica trasportando su un carrellino delle sfere di argilla. Marit è un’esploratrice protettiva in questo momento dell’azione, fortemente legata alla materia in quanto dispositivo benevolo. Successivamente, procede a impastare la materia e renderla sempre più fitta nelle dimensioni. La sfera di argilla si impregna della materia polverosa che costella il perimetro delle frasi, l’esperienza ludico-infantile della prima parte della performance si ribalta e procede come commento alla meccanicità del lavoro umano. È attraverso il contatto della sfera di argilla, che cresce avida nel suo bisogno di ingrandirsi, con le parole impolverate, che la performer acquisisce una coscienza e spezza la sua personale catena di montaggio. Marit inizia a sollevare la sfera e a scaraventarla a terra ripetutamente, per poi innalzarsi al di sopra di essa sollevando le braccia e spalacandole come se fossero delle ali, in una posa di rivelazione messianica. Va avanti insozzandosi nel prodotto materiale della sua stessa fatica, esorcizzandola e realizzando, subito dopo, una splendida scultura dalla forma ad anello con la stessa materia. La scultura si colora con nuovi pigmenti, viene riposizionata sul carrellino impiegato all’inizio della performance e Marit è adesso spogliata della sua tenuta da lavoro per agire convulsamente all’interno del suo cerchio. Stride sul pavimento con il gesso scuro disegnando altre forme circolari, inscrivendo se stessa in nuovi perimetri di chiusura. Al bordo esterno del cerchio, un albero dal fogliame eterogeneo, che gira anch’esso su se stesso, si illumina, mentre è invaso da una coltre di fumo. Marit Sandsmark rompe l’esperienza uscendo dalla sala. La performance è suggellata da un testo di chiusura, che riporta domande esistenziali. Rumi è la firma riportata al testo, che si interroga sulla propria provenienza, il senso del proprio essere-nel-mondo, del proprio agire attraverso la bocca e la voce. Questo testo è estremamente potente e impotente allo stesso tempo, nel tentativo di recuperare se stessi nelle proprie domande, chiedendosi quanto ci sia di personale nei processi automatici della cultura: linguaggio, voce, ascolto, anima, parola, volontà di essere viventi e di dover lasciare questa dimensione.



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Ieri mattina, io, Potito Forte, ho deciso di sfuggire da me stess3 e rompere la mia routine dell’azione scappando verso il mare. Vivo per questa settimana, in occasione di Supernova, vicino al mare, nell’area costiera di Rimini, e cerco di risolvere l’immensità dell’imprecisione effimera che è la vita facendo una scomposta corsetta sul lungomare di questa ridente e al contempo squallida (di quello squallore vintage anni ’80 che le madri celebrano nelle loro giovinezze bionde e spettinate) cittadina romagnola. Sono un3 grande cretin3 perché non dormo bene da giorni e la mia tachicardia ne risulta accentuata, ma penso che i miei bisogni emotivi vengano in primo piano rispetto a quelli fisiologici. Al corpo c’è sempre tempo, id est I’ll sleep when I’m dead. Giungo alla ruota panoramica sul porto di Largo Boscovich, sono estraniato dall’aria afosa che c’è all’ora di pranzo di questo venerdì 19 aprile, e penso che in questo nuovo millennio il tempo meteorologico è un grande cadavere che continua nel suo strascico del corpo. Non immagino una di quelle ampollose apocalissi bibliche, ma solo un futuro sempre più invivibile e un definitivo finale da cimitero per il clima mediterraneo nella nostra penisola. Prevedo un’intensa desertificazione per il resto della mia vita, e un susseguirsi di microclimi ogni giorno. Spero almeno di essere bell3 per l’occasione.

Dopo essere giunt3 alla ruota panoramica, mi rifocillo con una cingommosa piadina che accompagna un’insalata mista, acquistata in una tavola calda della zona. Successivamente entro abusivamente nella spiaggia privata, transennata per i lavori di ripascimento del litorale romagnolo, e mi fermo a concentrarmi sull’eternità fuori dal tempo, inscritta nel tessuto stesso della sabbia scura, ingioiellata nel volto tramite conchiglie bianche, e le onde delicate che increspano la sua testa e ne fanno dei capelli infiniti, senza fine, vanitosi in giusta misura. Per rompere la solitudine protettiva di questo attimo eterno, ho deciso di raccogliere dalla sabbia un ramo legnoso e impastato dalla luce solare. Probabilmente era lì ad aspettarmi per rendermi scrittor3 nella sabbia, o sono solo troppo nelle aspettative del mio io. 

Ho tracciato sulla sabbia le prime frasi che mi scorrevano nella mente, un po’ per rompere il sogno romantico che si tenta sempre di produrre quando si è al mare e si ha voglia solo di tracciare cuori, frasi solari e piene di speranza, per ricevere il mare e la natura in maniera domestica, climatizzata e piacente. Io invece sono vandal3 per oggi e scrivo così: 



Il linguaggio non esiste



La vita è il nemico



Rispetto a quest’ultima frase, mi è partita pensando a un’icona trash da cultura televisiva e ulteriormente riprodotta tramite Youtube, Richard Benson. Artista hard-rock morto 2 anni fa che si raccontava come nato in Inghilterra, ma al contempo rozzo filosofo della borgata, romanaccio, volgarissimo nel suo strimpellamento di chitarra, ricordato per le sue sfuriate su TeleVita e i suoi urli gorgheggiati da oltre 100 decibel contro tutto e tutti. Anarchico, provinciale e al contempo inglese, in uno dei suoi interventi testimoniati sul web, termina una puntata della trasmissione a cui lavorava negli anni 2000 su TeleVita, rete conservatrice-populista chiusa nel 2012, con quest’ultima frase. La vita è davvero il nemico: siamo sballottati nelle forze esterne fin dalla nostra nascita, inseriti in un corpo che non è autoprodotto, generati senza consenso e allontanati dal nostro corpo nella morte senza ulteriore consenso, a meno che non si agisca provocandosi la propria morte. A questo, si aggiunge la comunicazione, ipotetico tentativo di superare il limine che separa ognun3 di noi nelle nostre individualità. Ripartirei dalla decostruzione derridiana proposta in De la Grammatologie per superare ogni ontologia, dal recupero della voce prima dell’egemonia della parola. Il potere sonorizzante della voce deve tornare a perforare quello scritturale. Il logos è un pene sorretto dalla sua stessa asta che eiacula in continuazione nel raggiungimento dei suoi scopi (e sono io stesso ad adoperarlo in questo momento). Bisogna recuperare la phonè e non fare dei processi di definizione il centro della carne. 

Mi spoglio nel mare, affondo e divento una sirena, urlo nell’acqua e ritorno nella placenta pre-verbale. 





AAAAAAAAH!!!!!!!!!!!!!!!!! PROVA A PRENDERMI se ci riesci


foto di Potito Forte





 
                                                                                                   @supernova2024