Biopolitica del corpo-macchina Linda Armelius
La reiterazione di una quotidianità fisica e mentale, costretta nelle dinamiche del consumo, è riprodotta da un corpo che smaterializza la realtà portando in evidenza la nevrotica sofferenza di un fisico sottoposto alla ripetizione dove lo slancio vitale non muore ma sopisce e si incanala nella
ritmica ripetizione di ingranaggi capitalistici che, cuore metallico e disumanizzato, battono il tempo della sopravvivenza.
Mantide d'acciaio, il corpo si fa macchina, programmato, programmabile e controllato, si autosostiene e solleva, diventa soggetto e oggetto, artefice e vittima, così come il ciclo produttivo si alimenta e vive sui e dei suoi stessi lavoratori, in un unico cerchio in cui chi muore per produrre è lo stesso che consuma.
Il rumore bianco della fabbrica, un fondo sonoro, nuova e antica ninna nanna, culla e addormenta la coscienza, l' incoscienza, fusa feline che calmano la preda e il flusso procede nell'alienazione che inibisce il cambiamento.
La riduzione del campo d'azione del lavoratore e dello spazio vitale sono micro movimenti che culminano con l'abbattimento della lotta e della speranza in una critica politica che affonda le radici nella lotta di classe degli anni settanta e nelle sue vittime, rigenerandosi nella contemporaneità del suo messaggio.
foto di Margherita Caprilli
Per paola bianchi Gabriele Germano Gaburro
Comincia con un'ala rotta, il
moncherino d'un braccio contratto,
alzato e calato, alzato e calato per il
segmento d'un corto tracciato, arco di
rigidezza automa. Un deltoide pulsa
d'un battito minore, un nervo un
tendine una fibra, millimetri divergenti
dall'assegnata funzione, eppure
tuttora sottomessi, storditi, assuefatti
alla tesa partitura d'una meccanica
obbedienza. Assurdità di averessere
un corpo, assurdità del copione
prescritto a questa anatomia del
fallimento. Assurdità della posa,
qualunque posa, postura impostata,
impostura imposta, e reiterata,
reiterata, reiterata... potesse il lutto
sospendere la spudoratezza d'ogni
giorno!
S'agita così compresa, composta e
disperata, questa figurina macilenta,
rimpiccolita, soffocata... passerotto
ferito col becco mascherato da un
rovo di ciuffi argentati, che a tratti
trattengono un lucore metallico, come
avendo lungamente assorbito i riflessi
d'una catena. Arrugginita, atrofizzata,
indurita nel suo intimo crampo
alienato, tremata dall'impercettibile
sbavatura d'una vibrazione, che ora
batte il quarto di carne d'una gamba
sola, solo una, separatamente
accennando schisi di membra
discrepanti. Impossibile, il semplice
passo è montagna di conquista. Solo
da ferma si muove, internamente al
suo stare scavata, ganciata sghemba
alla scena nell'estasi interdetta del
gesto crocifisso. Nel calvario di scorci
di carne emaciata s'affaccia un
tramonto negato, l'ingorgo d'un
estuario di tregua. E si trascina, sul
posto si trascina, scarsa di frame, in
slow motion, implosa nell'anse del suo
sfinimento, eviscera il tempo in
scortico vivo d'affondo fino all'off della
potenza.
Non hai più guscio, sei sprotetta, dove
vai? Lumaca secca, senza bava, la tua
scia è agli sgoccioli. Che resta alla tua
fuga? La trascendenza nega l'azzurro
slargato... quale via può segnare il
diagramma di incastri che ti travaglia
ogni moto? Dove spezzare? Cadi su,
da brava, fatti cartoccio, carne di carta
accartocciata, tutta spiegazzata dal
pugno invisibile che ti afferra, grande
mano che attorno ti serra. A terra ora,
un piccione investito pari, a ornare di
disgrazia un guardrail polveroso,
accampata in questo sottotetto, col
rivolo di sangue d'una bandana rossa
che ti ruscella da sotto il petto
schiacciato. Povera creatura
martoriata, povera bestia. Di tua mano
t'appendi all'amo uncinato dell'unghia
come l'abbattuto al paranco, e l'umano
alla coscienza. Parassita della tua
stessa materia! Silhouette del deserto,
la tua ascella di sabbia si solleva e
confessa una duna di monili nel torso
ondulata.
Ora che sei, in fine nera, spenta nello
spento, noi che spettiamo al tuo
sbiadimento cadiamo con te nel
silenzio tuo, essenziale, asciutto,
inciso... e non so quale pazzo, tardivo,
forzato, si sia macchiato le mani d'un
applauso, il primo, il secondo, il terzo...
a profanare il sacro che ti dona morta
alla morte, tutto un vuoto si è gremito
di questa barbara semplificazione...
solo tacere vorremmo e invece giù, a
battere palmi... gesto da copione
d'una catena di montaggio.
su Fabrica [AAMOD]
Potito Forte
Ore 19,30
Ingresso nella Sala Musica del Teatro Galli
Sala buia e circolare, spazio arioso, costolato legnoso del sottotetto che funge da volta dell’azione scenica
Paola Bianchi, soggetto di scena, amplifica il contatto simbolico fra gli elementi architettonici della scena con la sua performance. Il suo corpo si spezza nei movimenti dell’azione e produce un effetto simbiotico con l’ambiente. La drammaturgia del momento avviene di spalle, non è soggettivata, ed è ulteriormente stratificata attraverso uno schermo presente dietro all’artista. Le immagini che scorrono, a mo’ di scenografica videoartistica e sovrastorica, sono tratte da AAMOD, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico, e mettono in scena rispettivamente:
• La visita medica di controllo di un lavoratore di fabbrica;
• Frammenti da rivolte studentesche e operaie nel contesto germinale del 1977. Il 1977 è l’anno dell’uccisione da parte delle forze dell’ordine di Giorgiana Masi, coinvolta in una manifestazione pacifica del Partito Radicale.
Il balletto meccanico di Paola Bianchi è sovrastruttura alla dimensione documentativo-simbolica della generazione del Settantasette. Tramite l’uccisione della Masi, trova inizio una crisi delle speranze generazionali radicali, direzionate alla difesa dei diritti umani e civili tramite azioni non violente. La scelta di questo momento, anticipatorio della parentesi violenta da parte delle Brigate Rosse nell’uccisione di Aldo Moro, è estremamente significativa da parte della Bianchi. La strumentalizzazione del messaggio di rivendicazione sindacale è stata consequenziale nel percorso di messa a frutto della storia nazionale.
Paola Bianchi rompe la meccanicità del suo corpo fagocitato dal lavoro industriale facendo il pugno chiuso e impregnando la sua performance con una sciarpa rossa. Successivamente, nel reportage video alle sue spalle, che testimonia il contrasto tra forze dell’ordine e movimenti pacifisti nel 1977, l’artista si accascia a terra e fa del simulacro politico e cromatico il vettore semiotico della sua fine (divenendo riferimento al sangue). Paola muore nella performance e il buio cala sulla scena.
La generazione cade nella strumentalizzazione del suo grido antisistemico e perde il suo corpo, nel tentativo di riappropriarsene e gestirne la prossemica in maniera recuperata. La carne-oggetto ha tentato di ri-soggettivarsi ma è caduta nel suo stesso ingranaggio.
Paola Bianchi, tuttavia, non rinuncia a pronunciare un messaggio di riaggregazione e potenziale speranza combattiva tramite la lettura di un comunicato stampa da parte degli operatori e delle operatrici artistico-teatrali, in cui dichiara lo stato di disastro culturale della penisola. Il suo testo di denuncia è fortemente critico contro le decisioni istituzionali in materia di nomine direzionali in ambito teatrale. Il suo è un distanziamento dallo status quo e una volontà di affermare un messaggio di recupero nelle arti performative, che risente di mancanza di welfare e precariato per gli operatori del settore e uniformazione della programmazione degli spettacoli. La volontà di “accendere altri fuochi”, ribadita da Paola Bianchi, localizza pacificamente le intenzioni radicali del suo messaggio, e situa consapevolmente nell’attimo il suo agire performativo. Tramite l’effimero corporeizzato della sua azione, Paola Bianchi produce una dialettica nella gestione e nel controllo del corpo, che non è mai portata a compiutezza. Il corpo è meccanico, dunque non transitivo, ritenta di rioccupare il suo messaggio umano attraverso l’ideologia radicale, tuttavia perisce e chiude il suo cerchio. Infine, la lettura del comunicato innalza lo sguardo e rompe l’environment situato della performance. La volta architettonica si spezza e si spera che il suo messaggio possa bruciare il teatro in quanto luogo di chiusura gerarchica, per aprirsi all’orizzontalità della volta celeste.