Il lamento è fluido: filologia di Corpi d’Acqua
Rebecca Diana Ricciolo

L’attenzione alla materia come qualcosa di vivo e di presente, le sue scritture e contaminazioni sono un riferimento fondamentale nella direzione di questa edizione di Supernova 2024. Non a caso la Talk Corpi d’acqua, curata da Ileania Caleo (attivista, performer e ricercatrice presso l’università IUAV di Venezia e a Roma Tre) si apre con la lettura di alcuni stralci di Le Onde di Virginia Woolf, che fanno riferimento proprio alla composizione di una delle materie più discusse e politicizzate degli ultimi anni: l’acqua. 
Stiamo assistendo a un progressivo interesse dei femminismi verso il materialismo:  ciò non solo è indice di una rinnovata visione in cui la materia può far parte dello spazio in forma attiva, ma anche della rottura del privilegio umano di considerarsi unico nelle sue forme e azioni, ripensando quindi gli attributi della materia. 
In questo senso l’acqua rappresenta una prospettiva compositiva, nella quale è utile sondare sia le conseguenze politiche di questo ragionamento che l’approccio decoloniale e femminista che ne deriva. Il racconto della Woolf si colloca proprio in questa riflessione, nella necessità di sottrarre ogni atomo alla materia e di eliminare in essa tutto ciò che è inerme e superfluo. Anche l’approccio di permeabilità che esiste tra i corpi e ne definisce i confini conseguentemente cade, in favore di una fluidità nella quale l’acqua diviene grammatica e materia ritmica. Supernova si apre, dunque, su uno spaccato idrofemminista, approcciando immediatamente le teorie di Astrida Neimanis, che sonda i confini, gli stati della materia e l’acqua declinata in alcune delle sue molteplici forme: vita, morte, confini tra i mondi, contaminazioni, archivio e testimonianza. 
Le artiste che partecipano a questo dialogo sono: Simona Bertozzi, Giada Cipollone, Valerie Tameu, Valentina Medda e la stessa Ilenia Caleo, con Silvia Calderoni. 
Volte a darci una prospettiva dei loro lavori, in cui loro stesse sono state coinvolte sia per scritture che messe in scena, le performer ci rivelano retroscena di studi e approcci alle loro creazioni, portando alla luce diverse prospettive con intenzioni estremamente simili. 

foto di Margherita Caprilli



A riprendere il lavoro più celebre di Astrida Neimanis, Bodies of Water, c’è un’interessante riflessione che accumuna tutte, un minimo comune multiplo imprescindibile: la memoria che passa attraverso l’acqua e ciò, che di noi, lasciamo ad essa. Innanzitutto, il fluido ospita in sé cellule, capelli, oggetti e,tristemente, anche corpi morti, partendo dalla grande deportazione dei neri nelle Americhe sino a ciò che sta accadendo nel Mediterraneo in questo preciso momento storico. Su questa prospettiva si collocano alcuni degli spettacoli della rassegna, che configurano nella loro ricerca una lamentatio nei confronti di tutto ciò che il mare trattiene e ci restituisce, inerme, sulle sue sponde. Un non-luogo, quello delle sponde, che definisce la separazione tra due cose, la terra ferma da quella mobile, ma che non esiste veramente in termini di tangibilità. Eppure, è proprio la sponda ad essere testimone e partecipe della perdita e del lamento, il saluto che si volge ad un altrove, crudele e onesto, che trattiene e respinge quello che fagocita. Elemento impossibile da dividere sul creare dei confini reali e materiali, l’acqua e la sponda sono testimoni anche del lavoro di Valentina Medda, che crea un’aura sacrale intorno alla sua processione di fronte al mare. I corpi su cui lei lavora sono sempre nuovi, adottati dalla città in cui si esibisce e sottoposti a un laboratorio per calarsi in prospettiva luttuosa e intima di fronte alla pienezza dell’acqua e di ciò che ospita. Ricalcando, in maniera quasi magica, le figure delle prefiche greche e della attitadore sarde (letteralmente, “sporgitrici” della tetta, del seno, che accompagnano il morto nella sua decadenza in modo molto simile al rituale della nascita), queste donne sono insieme, di fronte al mare, delegate al pianto in una scomposizione ritmica e asciutta di gesti che coinvolgono sia disperazione che conforto. 
Sempre di testimoni si tratta quando si parla di memoria dell’acqua, e qui veniamo al secondo ruolo che questo esercita in termini di memoria: l’archivio. Nel lavoro che vede coinvolta Giada Cipollone come drammaturga, Haunted, con Gaia Ginevra Giorgi, la ricerca di memoria si esplica attraverso un fatto sorprendente: il ritrovamento di alcune bobine sopravvissute ad un’alluvione, databili tra il 1980 e il 1997. In questi nastri registrati si salva una voce, quella di un uomo defunto, su cui le scritture di questa scena si disegnano. Fondamentale in tal senso sono state diverse letture, tra cui quella di Antropologia dell’acqua di Anne Carson che riconosce in questo elemento fluido sia uno scopo di agente omeopatico che trattiene qualcosa che quello di metterci di fronte all’impossibilità di contenere qualcuno o qualcosa che amiamo, facendocene immaginare contorni e sfumature. Il processo di ri-creazione di questa voce, infatti, si fonde proprio con immaginari possibili delle due artiste e con i ricordi di infanzia della Giorgi che s’intersecano a voci differenti e a quella dell’uomo immaginario, ritrovata e decostruita prima di essere pensata nuovamente. L’elemento sonoro gioca un ruolo di altrettanto valore in questo processo, in questa pratica che prende scientificamente il nome di Hauting, cioè di elaborazione di un lutto ridando vita e riappropriandosi della persona defunta anziché riportarlo alla memoria attraverso un processo di elaborazione puramente traumatica. In scena, il ruolo assegnato all’acqua è quello di simboleggiare sia una rinascita di qualcosa di perduto, proprio come avviene per la vita che prende forma proprio immersa in un liquido, che la difficoltà di mettere mano e scavare al suo interno per ritrovare qualcosa di perduto. Un tentativo di ricostruire le fila di qualcosa che è andato perso, per sempre. 
Valerie Tameu nel suo workshop Vibrant Bodies, porta a galla il legame tra l’universo acquatico, la spiritualità e la resistenza femminista nera prendendo subito come spunto l’autrice Alexis Gumus e il suo libro, Undrowned. Questa lettura sonda la relazione tra biorganismo e femminismo nero; Tameu tiene le fila di questo discorso e le coniuga alla pratica somatica, aiutando il corpo a creare nuovi spazi, sia esterni ma soprattutto interni, in cui percepirsi, sentirsi e coniugarsi armonicamente alla propria individualità. O, alle proprie profondità. 
La rigenerazione del sé attraverso il ritmo è qualcosa che passa anche dal lavoro di Simona Bertozzi, che ha come oggetto di indagine Le Onde di Virginia Wolf, creando una sorta di play-poem del romanzo; una coreografia fatta di corpi che hanno perso le loro connotazioni spaziali, muovendosi morbidamente e fluidamente in confini diversi, prostrandosi e curvandosi verso l’evanescenza. Anche in questo lavoro, come tutto ciò che si lega a questa edizione di Supernova, il suono ha un ruolo centrale, è materia viva e non solo di studio, ma di interesse performativo: è attivo e imprescindibile in scena. Un suono che volge al suo stato di maggiore intimità nel lavoro di Ilenia Caleo e Silvia Calderoni, ThepresentisNOW?, che si svolge sul tetto di un palazzo la dimensione uditiva a un’elevazione privilegiata rispetto a quella delle strade, della terra. In questo caso la materia liquida è qualcosa di inevitabile, di corrosivo e pervasivo, in cui si riflette ardentemente tra possibilità di contaminazione e cambiamento di flusso, di traccia, che l’acqua (in questo caso specifico, la candeggina) lascia su materiali diversi, di colori differenti. Una riflessione che ci mette alla domanda: siamo già tutti contaminati? Il presente di cui si parla è davvero ora, questo presente in cui è impossibile sfuggire dall’inquinamento che le cose hanno una nei confronti dell’altra? 
La vicinanza al liquido, all’altro mondo materiale e immateriale, alle sonorità che ci circondano è quindi sostanziale in questi interventi e nei lavori che portano a luce, o meglio, a galla. In ognuna delle sue forme l’appello all’acqua è quindi, ovviamente, una pratica politica, un modo di occuparsi della ricerca attraverso qualcosa che ci riguarda tutti e sottolinea anche l’urgenza contemporanea che abbiamo essere toccati, contaminati e infestati da quanto abbiamo attorno. Un modo di considerare tempo, corpo e esperienza negli stessi termini acquatici con cui si sono definite le performance delle artiste in dialogo: come qualcosa che cambia stato, da esperire in rituali collettivi e metrici che sfondano l’idea di confine.


foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli



 
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