NOVAlaboratoria incontra Tomasz Kireńczuk,
Abbiamo incontrato il direttore artistico Tomasz Kireńczuk il secondo venerdì del Festival, ormai immerse nell’atmosfera della rassegna, con molti lavori assimilati e in attesa degli spettacoli del week end per farci raccontare la sua idea del festival, la concezione drammaturgica che tiene insieme i lavori che ha scelto, la prospettiva politica che in qualche modo li amalgama, pur nella diversità delle poetiche, dei linguaggi e delle estetiche.
Grazie a Tomasz per la generosità e a Ippolita Aprile per aver facilitato l’incontro.
Tomasz Kireńczuk- foto Pietro Bertora.
Tema 1
Vengono prima gli artisti o il festival? Indagine sul processo creativo che porta alla nascita del festival
«Parto sempre dopo aver selezionato gli artisti. Non mi piace lavorare per temi, lo trovo molto limitante. Secondo me non è proprio il modo giusto di intendere la curatela: sulla base di cosa dovrei sapere o prevedere di cosa si parlerà l’anno prossimo? Si può anche lavorare così, certo, ma per me è un approccio che restringe troppo.
Io vedo la curatela come un viaggio che si fa seguendo gli artisti. Se decido in anticipo un tema e poi vedo uno spettacolo bellissimo, potente, importante, che mi piacerebbe condividere con il pubblico… cosa faccio? Dico all’artista: “Mi dispiace, ho scelto un altro tema”? Non vorrei mai trovarmi in una situazione del genere.
Poi, anche se ho detto che non mi piace lavorare per temi, non è del tutto vero. È chiaro che la curatela è fatta anche di questo. Però a me non interessa fare un festival che “rappresenta” qualcosa, perché lo spettacolo rappresenta chi lo ha creato, non qualcosa in generale. Certo, ci sono molti spettacoli belli che ho visto e che non sono qui, magari proprio perché non rispecchiano le tematiche o le prospettive a cui mi sento vicino. In questo senso, mi permetto di usare il potere che ho per fare una scelta di tipo politico, sociale, estetico».
Coerente ma non troppo. Contenuti ed estetiche
«Guardando al festival, anche agli anni passati, mi sorprendo spesso delle scelte che ho fatto. È importante essere coerenti, ma – dal mio punto di vista – non troppo. Questo festival è molto coerente dal punto di vista tematico-politico, ma esteticamente ci sono molte variazioni, molta diversità. E devo dire che questa cosa quest’anno mi piace molto, forse più degli anni precedenti.
Guardando gli spettacoli che abbiamo visto in questi giorni, mi sono detto spesso: “Ah, bello che questi lavori seguono certe linee tematiche e politiche”. Però l’approccio è molto diverso. Ad esempio, tra Maud Blandel (l’oeil nu) e Jéssica Teixeira (Monga) ci sono molte somiglianze, ma esteticamente sono due mondi lontanissimi. E lo stesso vale per Kenza Berrada - BOUJLOUD (man of skins) - e Hana Umeda (Rape Flower): a livello tematico sono spettacoli “sorelle”, ma nella ricerca, nell’approccio, nello studio, sono spettacoli molto diversi. Quindi, per rispondere in modo chiaro: il tema si sceglie dopo.
Dal punto di vista organizzativo, cerchiamo di chiudere il programma entro dicembre. Anche perché, per il lavoro della squadra, se non si chiude presto diventa molto difficile portare avanti tutta l’organizzazione – c’è davvero tanto lavoro produttivo da fare. Allora, una volta chiuso il programma, cerco di riguardare tutto ancora una volta e mi chiedo: “cosa raccontano insieme questi spettacoli?” E per farlo mi aiuto immaginando uno spettatore ideale, che viene qui dal primo all’ultimo giorno e guarda tutto, uno spettacolo dopo l’altro, seguendo la drammaturgia che io ho pensato. Ovviamente questa figura non esiste, neanche io potrei farlo perché sarebbe impossibile vedere tutto, però provo sempre a immaginare questa persona che si fa questa esperienza completa. E da lì nasce il claim del festival».
Tema 2
Gli spettacoli nello spazio e nella piazza come spazio (del) pubblico
La piazza è un tema piuttosto complesso qui, perché ha una grande importanza per il festival e, anno dopo anno, è diventata sempre più importante anche per me. Non è facile da gestire, soprattutto perché non ho mai voluto fare compromessi sulla piazza.
Si potrebbe pensare di portare lì spettacoli più “leggeri” o “popolari”, ma secondo me è un approccio sbagliato. Implicherebbe pensare che il pubblico che viene in piazza non riesce a confrontarsi con lavori più impegnativi e politici e io non credo affatto che sia così. Anzi, questo festival mi ha dimostrato che il pubblico, qualunque esso sia, si apre molto volentieri a confrontarsi con tematiche molto progressiste.
Per me la piazza ha la stessa importanza degli altri spazi, forse anche di più, perché è l’unico luogo in cui riusciamo a raggiungere anche chi magari non vorrebbe venire. C’è chi si ferma poco, chi resta di più, ma è un’occasione vera per portare il messaggio del festival a un pubblico molto ampio. Questo è molto bello, ma anche molto difficile, soprattutto per gli artisti, perché esporsi in piazza è un rischio enorme.
Per esempio, ero convinto che lavori come quelli di Xenia Koghilaki (Slamming) e La Chachi (Los inescalables Alpes, buscando a Currito) potessero funzionare molto bene all’aperto. Ero sicuro, ma avere la conferma è un’altra cosa. Lo spettacolo di La Chachi, per esempio, è andato molto bene: c’erano circa 400 persone ipnotizzate, però per lei è stata una sfida dura, perché era la prima volta che lo faceva all’aperto. Ha ricevuto feedback entusiasti, ma non è mai una cosa semplice, rimane sempre una sfida.
Anche Xenia ha funzionato molto bene, chiaramente sulla piazza si perdevano certe cose, come il senso di prossimità e le cose più piccole, ma si aggiunge una massa di persone che crea un altro tipo di esperienza, e anche per lei ha creato un altro tipo di esperienza nel fare lo spettacolo. Ma anche lei, pur sapendo che era andato bene, mi ha detto subito dopo la performance “io non saprei cosa dirti perché non ho mai fatto un’esperienza di questo tipo, non saprei nemmeno dirti come mi sento”. Poi dopo che ci ha dormito su e il giorno dopo mi è venuta a dire: “è stata proprio un’esperienza bellissima, incredibile, la vorrei continuare così”. Però resta sempre una condizione particolare, una sfida continua.
Per me, comunque, è fondamentale che in piazza si portino gli stessi tipi di lavori che si fanno negli altri spazi, senza fare differenze».
Lo spazio outodoor come scelta drammaturgica che può anche non funzionare
Ero un po’ preoccupato per il lavoro di Tiran Willemse (When the calabash breaks), perché secondo me lo spazio scelto non era quello giusto. Ed è abbastanza “divertente” se ci penso, perché è l’unico spettacolo pensato per l’outdoor che abbiamo effettivamente presentato in piazza in questi anni. Tutti gli altri, infatti, abbiamo sempre chiesto di riadattarli. E secondo me, questo approccio ha sempre funzionato bene.
Tiran ha debuttato con questo spettacolo solo tre giorni prima, sempre all’aperto, ma in un grande festival di musica, in tutta un’altra situazione. La piazza è diversa. E su questo mi sento un po’ in colpa, perché se avessi potuto vederlo prima, sicuramente lo avrei messo in uno spazio più raccolto, più intimo. E lì, secondo me, sarebbe stato bellissimo, perché il lavoro c’è. Ha qualità, bellezza, una struttura forte. Ma in piazza non ha funzionato come l'avevo immaginato.
Per noi non si tratta solo di portare spettacoli ma anche di dargli vita. Qui da noi l’unico posto dove non rischiamo troppo è il teatro Il Lavatoio: lì è più facile far funzionare le cose, e lo riserviamo per lavori che richiedono un’attenzione particolare, a livello estetico, di luci, ecc. tutto il resto, invece, è sempre un rischio».
Xenia Koghilaki, Slamming - foto Pietro Bertora.
Tema 3
Il programma giornaliero come drammaturgia
«Il criterio per la programmazione delle giornate è sempre drammaturgico. Da un punto di vista pratico c’è un criterio che riguarda gli spazi. Poi per me, quest’anno, era molto importante aprire il festival con Kenza Berrada. Il primo giorno poi è sempre quello che si può gestire un po’ più facilmente, perché poi scegliere qualsiasi spazio che hai a disposizione. Quindi io parto sempre dal primo giorno e allora per me era molto importante, come scelta politica, partire con lo spettacolo di Kenza. Poi oltre a lei per me il primo giorno era molto importante avere Maud Blandel, Xenia e Hana. Quando avevamo fatto il programma io sapevo che volevo partire con loro. Poi sapevo anche che volevo chiudere con Clara Furey (Unarmoured). Io parto sempre dal pensare questi momenti, per capire come apriamo, che mood si mette al festival all’inizio e poi con quale momento si vuole chiudere. Poi ci sono anche questioni tecniche da tenere in considerazione, io volevo anche avere Ewa Dziarnowska (This resting, patience) all’inizio del festival ma dal punto di vista pratico mettere un durational di tre ore il primo giorno è sbagliatissimo, perché la gente non è ancora pronta. E poi per proseguire con la programmazione bisogna capire come si incastrano gli spazi, ma le scelte sono più che altro drammaturgiche».
La drammaturgia del festival fra clash di prospettive estetiche e centralità del corpo politico
Come dicevo, per me la coerenza è importante, ma non deve diventare eccessiva o rigida. Un festival come questo, che dura dieci giorni e ospita una trentina di spettacoli, ha bisogno di offrire una prospettiva variegata. Non avrebbe senso fare venti spettacoli come quello di Kenza, per dire. Detto questo, ci sono dei temi ricorrenti, delle risonanze che mi interessano molto. Penso alla questione del corpo, del corpo femminile, della prossimità, della cura: sono temi che ritrovo, pur in modi diversi, nei lavori di Kenza, di Ewa, ma anche in quello di Eli Mathieu-Bustos. Quello che li unisce, in fondo, è un’idea di corpo che si offre, che si espone. È una linea che, in un certo senso, stiamo seguendo da quattro anni: alcune scelte cambiano nel tempo, altre si radicano e questo dipende da chi incontriamo, da cosa vediamo. La cosa bella del festival è che ogni spettacolo lavora insieme agli altri. Anche se non vedi Kenza ma vedi Hana Umeda, quel tema passa comunque. Magari prima hai visto un lavoro dove il corpo è violato, e poi ne vedi un altro che mostra un’altra possibilità, un’altra prospettiva. Noi cerchiamo visioni diverse su come trattare il corpo. E anche Ewa, in questo senso, dà una sua risposta: quel piacere, quella bellezza, quel sentimento di cura è un altro lato della stessa esperienza. Ma anche Jéssica, in Monga, porta una grande sensibilità e bellezza, trattate in un modo diverso, chiaramente. Poi è vero che il lavoro di Ewa ha avuto un grande successo e che è un “falso” durational, perché se non devi non esci, ma questa è proprio la forza di questa performance che ha ricevuto davvero tanti apprezzamenti».
Tema 4
Intercettare il dissenso
Qui il dissenso non manca (ride). Quest’anno forse un po’ meno, ma anche perché, paradossalmente, il clima politico così triste ci spinge a restare uniti, a stare un po’ più all’unisono. A me comunque il dissenso piace, davvero. Quando tutto va troppo liscio io divento anche un po’ “suspicious”. Non può piacere tutto a tutti e non dovrebbe nemmeno essere così. Però è vero che quest’anno sono davvero molto felice del programma. Forse per la prima volta siamo riusciti a costruire esattamente il festival che avevamo sognato. E questo anche grazie al fatto che siamo stati fortunati: con molti artisti siamo riusciti a costruire relazioni di lungo termine – penso a Diana Anselmo, Flavia Zaganelli, Muna Mussie, Giorgiomaria Cornelio. Con loro abbiamo fatto un percorso insieme, ed è tutta un’altra cosa rispetto al semplice “presentare un lavoro”.
Poi ci sono artisti con cui siamo in dialogo da tanto tempo e quando arrivano qui si sentono a casa. E questo cambia anche il modo in cui si lavora insieme. La scelta che abbiamo fatto, in fondo, è quella di seguire artisti che sono ancora in una fase di trasformazione, che sono “in divenire”. Pensa a Ewa: oggi il suo lavoro già fa parlare molto a livello internazionale, ma quando l’ho visto io era solo la terza volta che lo portava in scena. Quindi dall’incontro ad oggi sono cambiate molte cose, ma noi ci siamo presi quel momento lì, quello in cui ci siamo detti a vicenda “io credo nel tuo lavoro”, e abbiamo deciso di andare avanti insieme. Anche questo tipo di fiducia personale, questa connessione, per me è molto importante.
Noi proviamo davvero a stare vicini agli artisti e questo porta con sé un altro tipo di pensiero. Poi magari non si percepisce sempre, non so se arrivi davvero al pubblico, ma io credo di sì perché l’atmosfera, l’ambiente in cui si vive il festival, ha un peso.
E comunque il dissenso qui si sente sempre. A me fa piacere anche quando qualcuno mi viene a dire “questo non mi è piaciuto”. Io ho il mio carico: fare questo festival e lo faccio nel modo migliore che riesco, assumendomi le responsabilità di ogni scelta».
Muna Mussie, Cinema Impero - foto Pietro Bertora.
Tema 5
La cura e la responsabilità verso la “scena emergente”
«Per me è sempre molto difficile distaccarmi dalle esperienze che facciamo con gli artisti, perché alla fine questo festival è un progetto di crescita e di ricerca, prima di tutto. In questo senso io non voglio mai intervenire sulle scelte degli artisti o delle artiste.
Prendiamo il caso di Giorgiomaria (Ogni creatura è un popolo): secondo me ha immaginato un progetto molto coraggioso, costruito interamente su citazioni – ogni scena è ripresa da qualcun altro – e io l’ho trovata un’idea davvero interessante. Lui ha questa intenzione forte di portare dentro il teatro una logica che viene dai social, da Instagram. E secondo me, come esperienza formativa è riuscito a fare esattamente quello che voleva fare, e questo per me è fondamentale.
Poi è chiaro che non tutti sono stati d’accordo con l’operazione che ha fatto, e ci sta. Ma io ho fatto una scelta molto precisa, molto aperta. Credo che, in un paese come il nostro, dove le possibilità e le risorse per la scena emergente sono davvero limitate, un festival come questo debba sostenere in primo luogo la ricerca, e in particolare quella degli artisti e delle artiste emergenti.
Mi dispiace, certo, che non possano venire sempre tutti gli artisti importanti o le compagnie affermate. Ma quando devo scegliere tra l’artista “X”, che ha già una storia riconosciuta, che è sostenuto e strutturato, e l’artista “Y”, che magari non ha neanche la possibilità concreta di fare il suo lavoro io scelgo sempre il secondo. Questo è il mio modo di vedere le cose. Poi, ovviamente, ci sono anche delle eccezioni.
Ad esempio, con Sciarroni è stato molto divertente: una volta gli ho detto “guarda, io mi sento male perché amo profondamente il tuo lavoro e vorrei averti qui ogni anno, ma questo festival a te non serve”. Poi però ho visto U. (un canto) ed era talmente bello, talmente forte, che non ho potuto non portarlo. È stato un regalo al pubblico. Ogni tanto arrivano questi lavori così raffinati, così ricchi di senso, che ti restituiscono la speranza, un pensiero nuovo. E allora anche io sento che è giusto fare un piccolo compromesso con me stesso.
La verità è che, alla fine, non ci sono regole fisse… anche se, beh, in realtà ce n’è almeno una: non possiamo spendere più di quanto abbiamo! (ride). Ma a parte i limiti pratici, le scelte sono una mia responsabilità. E ho capito che per me è giusto non impormi regole rigide, ma seguire le mie idee e anche essere disposto a cambiarle».
Tema 6
Accessibilità. La LIS al festival
«È un desiderio che abbiamo da tempo, quello di rendere il festival più accessibile. In passato abbiamo già fatto alcuni piccoli interventi in questa direzione, ma quest’anno la decisione di sostenere il lavoro di Diana (Pas Moi) è partita innanzitutto dalla qualità del progetto artistico e poi anche dal voler costruire le condizioni perché quel progetto potesse essere visto da tutte e tutti.
Devo dire però che ogni volta che vado al festival di São Paulo entro in crisi, perché lì non esiste spettacolo che non sia accessibile: ogni singolo spettacolo è tradotto nella lingua dei segni brasiliana, e i traduttori fanno parte integrante della scena, come è stato anche il caso di Monga. Lì non si pongono neanche la domanda se farlo o meno, lo fanno e basta. E questo mi fa riflettere su quanto, invece, qui siamo ancora indietro.
Sicuramente c’è l’intenzione di continuare e potenziare questo tipo di accessibilità, anche perché quest’anno abbiamo avuto una risposta enorme dalla comunità sorda. Ho incontrato anche il presidente dell’ENS della provincia, che mi ha detto: “Seguiamo questo festival da tempo, ma dopo 55 anni ci sentiamo finalmente riconosciuti anche da voi”. Questo non significa che in passato non sia mai stato fatto nulla, ma lo spettacolo di Diana ha segnato un passaggio importante. Anche il lavoro di Monga prevedeva da subito la presenza di un interprete LIS e lo spettacolo come lo avete visto è esattamente come lo hanno pensato: per loro la domanda non è mai stata “se” ci sarà la traduzione, ma solo “chi” la farà. Anche piccole cose, come aver tradotto in LIS la conferenza stampa e quella di apertura, per noi sono state significative. E di questo aspetto siamo molto fieri, anche se forse, a dire il vero, non dovremmo esserlo ancora».
Diana Anselmo, Pas Moi - foto Pietro Bertora.
Tema 7
Il silenzio e il non detto di questo festival
«Il silenzio, nell’esperienza performativa, ti lascia uno spazio in cui puoi dire, o immaginare, ciò che non è stato detto. Questo, secondo me, è uno degli aspetti più belli: ti permette di entrare in relazione con ciò che accade sulla scena, ma anche di trovare un tuo posto, un tuo senso.
Per me l’impegno politico nelle arti performative è fondamentale, ma non sempre deve passare per un linguaggio dichiarato o esplicito. Serve trovare la forma giusta, un’estetica che riesca ad accogliere lo spettatore, a tenerlo connesso. Il silenzio è uno di questi strumenti: apre uno spazio di interpretazione, ti invita a completare il discorso con ciò che magari volevi sentire ma non hai sentito.
In questo senso, il silenzio ha un potenziale politico molto forte, perché dire qualcosa non passa necessariamente dalle parole. Parlano anche i corpi.
Il primo anno in cui abbiamo lavorato insieme a questo festival abbiamo scelto come claim: "Can you feel your voice?". Era importante usare “feel” e non “hear”, perché “hear” esclude chi non può sentire, mentre “feel” richiama una voce che si percepisce, che si attraversa. Per me parlano i corpi, parlano le immagini, e parla anche il silenzio».
Tema 8
Il festival fra provocazione e gentilezza
«Non cerco mai la provocazione in sé. Non voglio dire che non mi interessi, ma semplicemente non è un criterio che prendo in considerazione. Quando incontro un artista, non mi chiedo se avrà successo, se piacerà al pubblico o se risulterà provocatorio. Queste sono dinamiche che non dipendono da me.
Quello che sento di dover fare è essere sincero nelle mie scelte e saperle difendere, perché conosco le ragioni per cui abbiamo deciso di portare un certo lavoro. Se poi qualcuno si sente provocato, ben venga: vuol dire che qualcosa ha toccato un punto sensibile, ha smosso qualcosa. E in quel caso, ciò che conta è capire perché ti ha provocato.
Io credo molto nel potere della gentilezza. Si può anche gridare, certo, ma non è detto che qualcuno ti ascolti. Esistono anche altri modi per farsi sentire.
Anche Feral ha fatto discutere, ma alla fine sono parole. Dietro c’è un artista che ha una storia da condividere e lo fa con sincerità. Poi si può discutere sul piano estetico, sul fatto che piaccia o meno, ma il modo in cui reagiamo a un’opera spesso racconta di più su di noi che sull’opera stessa.
La cosa che mi ha colpito di più, però, è stato vedere molte ragazze giovani piangere dopo aver visto Bell End. È un lavoro che io amo, ma aver visto che ha provocato certe emozioni nel pubblico è stato uno shock. Le ragazze mi hanno poi detto che quello che viene raccontato in Bell End loro lo vivono ogni giorno. E questo, secondo me, dimostra che se un lavoro ti provoca – nel bene o nel male – non fa che rivelare qualcosa della tua esperienza personale».
Mathilde Ivernon, Bell End - foto Pietro Bertora.
TOMASZ KIREŃCZUK
Nato nel 1983 in Polonia, Tomasz Kireńczuk è drammaturgo, critico teatrale e curatore. Nel 2008 insieme a un gruppo di giovani artisti fonda a Cracovia il Teatr Nowy, un luogo di ricerca teatrale che nel corso di pochi anni si trasformerà da organismo effimero in centro di produzione teatrale indipendente. Per alcuni anni ne è direttore progettuale, curandone aspetti artistici, educativi e sociali. Nel 2018 inaugura il Laboratorio del Nuovo Teatro, un programma dedicato alla formazione di giovani artiste e artisti che si concentra nel fornire mezzi di produzione e totale libertà di creazione. La sua pratica curatoriale si concentra sul lavoro socio-artistico con le diverse comunità locali. Dal 2013 ha realizzato diversi progetti insieme alla cittadinanza di Małopolska, in cui sono stati formati nuovi gruppi di attiviste e attivisti locali. É co-creatore di Dialog – Wrocław International Theatre Festival, uno tra i più importanti festival teatrali in Polonia, dove lavora tra il 2011 e il 2019 come programmatore e curatore. Nel 2017, a fronte di un ricatto finanziario, ha combattuto per difendere pubblicamente l’indipendenza del festival e il diritto alla libera creazione artistica. Tra il 2005 e il 2006 ha vissuto a Roma, dove ha sviluppato un progetto di ricerca dedicato al teatro futurista italiano pubblicando nel 2008, in polacco, il saggio Dall’arte in azione all’azione nell’arte. Filippo Tommaso Marinetti e il teatro dei futuristi italiani. Ha studiato e insegnato al DAMS dell’Università Jagellonica di Cracovia.
alla Galleria Eugenia Delfini. Nel 2024 attiva anche la collaborazione con la dancemaker Cristina Kristal Rizzo, con cui è co-autore della performance “Monumentum DA”. Diana è tra i fondatori di Al.Di.Qua. Artists, prima associazione europea di categoria di/per artistə con disabilità.