Intervista collettiva a Francesco Marilungo e Vera Di Lecce
Il giorno dopo la presentazione al Teatro Galli di Stuporosa, Francesco Marilungo, coreografo e performer e Vera Di Lecce, performer e musicista, sono venuti a trovarci a Nova Laboratoria. Abbiamo condiviso con loro curiosità e domande sul lavoro.
foto di Margherita Caprilli
Come avete lavorato alla partitura musicale dello spettacolo?Francesco Marilungo: L’idea era quella di attingere dal patrimonio folkloristico. Dato che nel progetto è coinvolta Vera (ndr Vera Di Lecce) che è salentina, abbiamo lavorato su quel repertorio lì. Ho fatto una ricerca su diversi lamenti funebri con materiali d’archivio. Ad esempio, ho studiato i cd di Diego Carpitella, un etnomusicologo che ha lavorato in Puglia, Basilicata e Barbagia campionando vari canti negli anni 50 e 60. Abbiamo attraversato vari archivi e poi abbiamo scelto un lamento funebre salentino che ci interessava in modo particolare e Vera lo ha mescolato con la musica techno.
Ero anche particolarmente interessato alla ninna nanna come componimento, leggendo vari testi di antropologia ho trovato un nesso molto stretto tra ninna nanna e lamento funebre, che di fatto è una ninna nanna per la persona defunta. Del resto, per i* bambini*, la ninna nanna si usa per il passaggio dallo stato di veglia a quello del sonno e il lamento funebre è un rituale di iniziazione per il passaggio della persona cara dal mondo dei vivi a quello dei morti, la morte è vista come un sonno eterno. Una coincidenza tematica che si riscontra nell’aspetto più formale del canto, alcune melodie usate nel lamento funebre sono, infatti, simili a quelle della ninna nanna. Anche i movimenti impiegati durante il canto si assomigliano, l’oscillazione aiuta il* bambino* ad addormentarsi e la prefica a entrare in trance, stato che Ernesto De Martino chiama concentrazione sognante. Volevo che nel lavoro ci fosse una ninna nanna perché mi interessava a livello poetico. Continuando sulla linea delle coincidenze in Sardegna la prefica viene chiamata attitadora, colei che da la tetta al defunto, come nell’allattamento.
Vera Di Lecce: Io ho sempre cantato la tradizione salentina, ero in un territorio che conoscevo particolarmente bene. La ninna nanna cantata nello spettacolo è in griko, una lingua antica tra dialetto salentino e greco antico, la cantava mia madre quando ero piccola e l’abbiamo scelta come leitmotiv dello spettacolo, accompagna i gesti e l’emotività delle danzatrici in diversi momenti.
Cosa rappresenta il fazzoletto che compare in scena?F.M.: Il fazzoletto bianco è utilizzato nel rituale funebre. Molte donne del sud hanno in tasca o nel reggiseno un fazzoletto bianco che usano in diversi rituali, sia per celebrare qualcosa festivo o un funerale. In particolare, durante il rituale funebre, si compie una danza che ricorda la pizzica intorno alla persona defunta usando il fazzoletto. Nel lavoro abbiamo ripreso i movimenti tradizionali rielaborandoli attraverso un codice contemporaneo.
V.D.L.: Anche nel tarantismo le donne usano il fazzoletto. Io ho sempre ballato la pizzica e anche la mia famiglia, che faceva performance, ha sempre lavorato con la tradizione, ho infatti aggiunto alla coreografia di Francesco la mia danza tradizionale, prendendo dei movimenti dalla pizzica per poi sfociare in un momento di trance delle tarantate. Abbiamo associato questa trance delle tarantate alla trance del dolore che avviene durante il rito funebre grazie ai movimenti rituali delle prefiche ripetuti e ossessivi. Abbiamo aggiunto a queste partiture fisiche il ritmo altrettanto ossessivo della cassa techno per aggiungere un momento di contemporaneità, vogliamo che questo rito venga vissuto anche ora, come un invito a vivere di nuovo la morte con un senso di comunità. Questi input sono stati uniti nella danza del fazzoletto con il lamento funebre come melodia portante.
Nella parte musicale sono partita dal loop, una porzione di suono che va in ripetizione e crea stratificazioni accordandosi con i movimenti ripetitivi del lamento funebre, la dimensione che si costruisce è immersiva.
C’è una componente ironica nel lavoro?F.M: C’è e se viene fuori mi fa piacere. Anche nel rituale funebre è presente una componente ironica che serve per esorcizzare la paura della morte. Quello delle prefiche è un pianto senza anima, a volte fingono di piangere, ma il limite tra realtà e finzione è molto sottile, l’esercizio del pianto poteva diventare un modo per rivivere i propri lutti e sofferenze. È un gioco teatrale. Leggendo delle testimonianze, sembra che, durante il canto, ci fossero dei momenti divertenti tra loro. Nell’ultimo pianto dello spettacolo, quello di Alice Raffaelli, abbiamo lavorato sul confine pianto/riso, la muscolatura che viene coinvolta è la stessa. Volevamo che fosse un pianto contaminato dal riso, per avere una speranza. Mi interessava lavorare sul confine tra finzione e realtà perché in fondo è quello che fa il teatro.
Qual è stata la ricerca sui costumi?F.M.: ho iniziato a fare ricerca sugli abiti da lutto. In Occidente il nero è il colore del lutto, spesso il rapporto con la persona defunta è ambivalente, da una parte c’è il desiderio che questa persona resti sempre con te, ma, dall’altra, c’è la paura che questa persona possa tornare per vendicarsi. Vestirsi di nero faceva diventare come ombre e quindi in caso di un ritorno della persona defunta chi aveva subito la perdita poteva non essere riconosciuto come vivo e, quindi, essere al sicuro.
Non volevo riprendere un abito tradizionale del sud perché non si tratta di una rievocazione storica ma volevo creare una condizione di straniamento. Tra le ricerche che ho fatto ho trovato che gli abiti da lutto più belli erano quelli vittoriani. La classe borghese ricca aveva proprio dei corredi di abiti funebri, c’era una moda degli abiti da lutto. Ho collaborato con il collettivo di designer di moda Lessico Familiare di Milano nella realizzazione dei costumi.
Facendo ricerca ho scoperto che, sempre in epoca vittoriana, si realizzavano gioielli usando i capelli della persona defunta, per questo ho voluto tornasse nel lavoro l’elemento dei capelli. Un’altra pratica che ho scoperto studiando è quella del tagliarsi i capelli come segno di sacrificio nei confronti della persona defunta, spesso le donne si tagliavano la treccia e la posavano sulla bara. Questa pratica è stata poi bandita dalla chiesa perché considerata pagana.
A livello cromatico volevo che ci fosse questo passaggio finale al bianco. In passato l’uscita dal lutto si realizzava attraverso una transizione cromatica degli abiti: nero, viola, blu, violetto fino ad arrivare al bianco. Per me il bianco finale rappresenta la fuoriuscita da questo stato, una liberazione dal dolore delle performer in scena.
foto di Margherita Caprilli
Cosa rappresenta la vasca nera? F.M.: L’acqua è un elemento sempre presente nei rituali d’iniziazione, per me è come se fosse una vasca di lacrime. Nei rituali funebri l’acqua viene utilizzata anche per la tolettatura della persona defunta, ma volevo che fosse anche elemento purificatore per le performer, per risvegliarsi, rinfrescarsi, per superare i momenti di crisi. Doveva essere presente, allora ho disegnato questa vasca e l’ho fatta realizzare. E lo svenimento? F.M.: Quando l’essere umano viene colpito da uno stato di crisi i due lati estremi del dolore che devono essere controllati attraverso il rito sono da una parte il pianto irrazionale che ti porta a fare gesti parossistici di violenza verso te stesso* e verso gli altri o l’entrata in uno stato di catatonia in cui non riesci a fare nulla e svieni, cadendo in una condizione simile alla morte, che De Martino chiama ebetudine stuporosa, da qui il titolo del lavoro.
Lo svenimento c’è perché è una reazione a un forte dolore, nel lavoro sono presenti varie cadute a terra, alcune più realistiche, altre più stilizzate.
Roland Barthes parla di pothos, un pathos de-isterizzato, un concetto che ho voluto inserire nel lavoro.
Potete raccontarci qualcosa della dimensione gestuale? F.M.: Siamo partiti* dall’Atlante figurato del pianto di Ernesto De Martino, ci sono dei gesti che sono archetipici, sono stati codificati dei gesti del dolore che si sono tramandati e che anche l’arte figurativa occidentale ha usato. In realtà la gestualità con più pathos andava contro l’idea cattolica di non avere paura della morte, bisognava, dunque, manifestare un dolore contenuto, incarnato dalla figura della Stabat Mater che però non aveva presa sulle persone.
V.D.L.: Ho composto le musiche mentre venivano costruite le coreografie e questo è stato molto stimolante per me. Francesco ha creato un vocabolario gestuale io, invece, ho lavorato a un vocabolario musicale del pianto. Ci sono diversi tipi di pianto: quello al microfono, quello riverberato, quello mescolato ai sospiri di dolore, quello della chitarra e l’archetto elettronico che diventa un urlo. Nella parte finale dal mio canto si arriva a un pianto.
F.M.: Volevo che fosse presente una parte vocale perché il lamento è stato anche un modo per le donne di prendere voce.
Come organizzate la ricerca sul campo? F.M.: Non è facile, serve sempre qualcuno cheti introduca nella comunità. Credo che le interviste più belle le abbiamo fatte in Basilicata, stiamo facendo anche un documentario su quell’esperienza.
Abbiamo intervistato sia signore anziane che donne giovani per vedere come si sono trasformate queste tradizioni. Una signora, ad esempio, ha cantato per noi il lamento fatto per la morte di sua madre e ci ha mostrato la danza del fazzoletto.
Come avete lavorato a livello coreografico? F.M.: Abbiamo lavorato su delle qualità di movimento. Mi piaceva l’idea che il corpo in scena recuperasse delle forme antiche per poi dimenticarle, quasi in una sorta di amnesia, e che questo riverberasse in una frammentazione del corpo. Ho dato delle indicazioni precise e ci sono delle cose fissate nella struttura, ma ci sono dei margini di improvvisazione. Anche a livello drammaturgico avevo un canovaccio, ma poi abbiamo costruito insieme. È un lavoro corale in cui l’ascolto collettivo è fondamentale, se tutto viene fissato è più difficile attivarlo.