Stuporosa FRANCESCO MARILUNGO
foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli

La lingua indecifrabile
Giuseppe Mongiello

“Si compie, nella coscienza, l’evento di una nascita, che è insieme memoria di una morte (…) La voce, prima d’essere voce della coscienza, è indistinto richiamo del silenzio” (Hegel).

La bocca è vuota e non è lì per trasferire con il suono una pienezza espressiva. Ha raccolto dal seno materno, ha pianto dopo la nascita, non preparata da niente, ha il buio, l’abisso e il silenzio alle spalle. Dopo il sogno,dal pianto si giunge al canto e dal canto si tornerà al pianto (Francesco Marilungo).

Nasciamo provenendo dal silenzio e, forse, la nostra voce potrà sopravvivere alla morte del corpo. 

In Stuporosa di Francesco Marilungo il patrimonio antropologico dell’oralità si scopre essere un matrimonio ereditato e tramandato dalle guardiane della vita e della morte. 

Il sapere è trasmesso per prossimità, esperienza diretta: tutti i come, dove e quando si realizzano ed eseguono particolari formule, si ricompongono, anche inconsapevolmente, in forme archetipiche perché è così che si è sempre fatto (detto popolare).

Ad un certo punto, non controlliamo più il processo dell’emissione vocale, con la stessa passività che accompagna lo sgorgare delle lacrime, la crescita delle unghie o dei capelli.

È frequente trovare nella tragedia greca il riso e il sorriso come antidoto al trauma. La contrazione del viso in lacrime, per esperire l’insopportabile, mutua il pianto in riso. Solo la morte può uccidere la morte, per la quale non ci sono parole, allora si uccide la parola attraverso il ritmo, nel ripetere per rinnovare (Simona Bertozzi).

Ascoltiamo la nostra voce con un ritardo rispetto alla sua emissione, che ce la riporta, dall’esterno, come una voce altra.

Specchiandoci nella pozza d’acqua sorgiva pronunciamo l’indicibile e nel mistero della purificazione del corpo con le acque si dubita non solo dell’essere delle cose sensibili, ma a disperare di esse. L’indicibile è custodito dal linguaggio più gelosamente di quanto non lo fosse dal/nel silenzio.

Stuporosa,di Francesco Marilungo, ci mostra come si rinfrescano le anime trapassate (detto popolare): il preverbale, la lingua indecifrabile è quella comprensibile agli/alle antenati/e; le parti cedibili del corpo, separabili dal corpo, sono il dono per scongiurare dall’impazzimento; le possibilità date dalle geometrie dei motivi tessili, il lavorio femminile con i filati, si trasferiscono nel campo semantico e coreografico come griglia sulla quale provare a riordinare ed attutire gli effetti del caso e del fato.

Le ombre sono ciò che si manifesta ai nostri sensi, ciò con cui dobbiamo continuamente confrontarci per interpretare e capire il mondo e noi stessi che ci siamo dentro.

(Federico Albano Leoni, Voce. Il corpo del linguaggio)

Il movimento d’ombra delle performer è etereo, un assembramento di nubi scure che frizionano il tuono, la voce del tuono: propiziano la pioggia, in modo che il cielo possa piangere insieme e al posto loro.

Levitano, evaporano, per via di un dolore, uno stato emotivo che facilita il raggiungimento dell’estasi, che è l’uscire fuori di Sé.



Riferimenti bibliografici:
- Silvia Vizzardelli, Le lacrime come la voce
https://www.doppiozero.com/le-lacrime-come-la-voce

- Attilio Scarpellini, Stuporosa, l’epifania del pianto
https://www.doppiozero.com/stuporosa-lepifania-del-pianto

- Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Einaudi, 2008


Il colore del lutto/la vita stinta: Stuporosa è un passo a cinque con l’Assenza
aurora santaluce


nel meridione il lamento del lutto ha suono ellenico: ce lo ricorda stuporosa, la performance del coreografo francesco marilungo. a fare da colonna sonora a questo susseguirsi di passi e lacrime c’è il griko, l’antico dialetto salentino che in questo contesto diventa nenia di supplizio. 
ponte della litania è vera di lecce, che canta e compone e mischia l’antica lingua alla contemporaneità dell’elettronica, dando un modo tutto nuovo al lamento di insinuarsi nella contemporaneità. cosa vuol dire piangere qualcuno, il volto irrigidito dal sommo peso della mancanza e il corpo a muoversi su un beat arcaico? In quest’opera il richiamo alla terra e alle radici del Sud è trasversale, taglia la scena con un colpo netto: cinque risolute tarantate ballano al ritmo della morte – la sofferenza qui non è nascondiglio ma manifesto di una vita che si è amata, certamente anche odiata, ma che in ognuno di questi due sommi estremi è stata vissuta e che deve, dunque, essere ricordata. se perdi tu il tuo corpo fisico e buchi la parete dell’astrale, allora io che rimango qui mi dimeno mi dondolo io dolce esteta del dolore, mi ricordo che dead can dance attraverso di me. le danzatrici muovono tutto il corpo che è immerso, affonda in imponenti ambiti ottocenteschi: guardami, sembrano dire, guarda come mi ergo nonostante la complessità di questa trama (la vita), la pesantezza di questa stoffa (la morte che strappa via), e leggère e divinatorie si spostano sul palco. il pudore non viene solo abbandonato ma quasi si ripudia, nello scuotimento c’è il desiderio di voler onorare le modalità delle donne di culture-prime che tutto insegnano alle nostre odierne – il dolore non conosce tempo e non conosce classe, riverbera nell’atavico sentire, e per questo unisce e quieta. in questa performance il corpo cessa di essere un’appendice della mente, si fa canale di una trance spirituale che coinvolge tutto l’organismo. lo vediamo venire attraversato nei cinque echi delle danzatrici da: spasmi, incurvamenti, sussulti. e poi le braccia l’una dell’altra a intrecciarsi, ad accompagnarsi nel vortice del sentire. dal tormento della perdita non ci si salva, ma ci si può con placida accettazione lasciar guidare. sostengono Adriano Favole e Gianluca Ligi ne “l’antropologia e lo studio della morte: credenze, riti, luoghi, corpi, politiche” che l’idea della morte sia “un fenomeno ambivalente, che oscilla tra distruzione e costruzione, tra crisi e rafforzamento” ed è proprio in questa dimensione di mezzo tra collisione/connessione che si erge solido il tema della collettività. le danzatrici, a turno, si scambiano il ruolo di vedove e mai comparano però il grado del proprio dolore con quello dell’altra – nel convulso intervallarsi di gesti rituali emerge il fitto bisogno di lasciare traccia di qualcosa (chi ero con te? chi sono adesso che dovrò reinventarmi?) e la spettrale speranza della libertà (come posso occupare, ora, tutto questo spazio? nel dubbio, danzo.)







 
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