The Last Lamentation
VALENTINA MEDDA
                     
foto di Margherita Caprilli



Alzare tempesta
Giuseppe Mongiello

Spiaggia libera, 
Piazzale Boscovich; 
20.04.24

Il pregare è una potente fenomenologia umana, è parlare e dare del tu a dalle presenze invisibili, come quando si parla alle/agli ex fidanzate/i, allargando il senso di ciò che ci lega all’altra/o.

Noi non riusciamo a funzionare senza l’immaginazione, che non significa inventare cose, ma intuirle, precederle nella loro esistenza, o invocarle nella loro assenza.

La preghiera è sinonimo di ricerca costante per comunicare con cose che non vediamo, ad esempio il senso dei legami che abbiamo con le persone scomparse¹. 

The Last Lamentation di Valentina Medda celebra la credenza nella presenza nei defunti, in un saluto fra chi è restata/o e chi è andata/o, per sempre, a mare. 

Dodici performer, in riva al mare, le porte regali tra due mondi, sciolgono i vincoli del visibile, per ricordarci di parlare, in forma di preghiera, con la presenza di chi scompare nel naufragio. Condannano l’attuale realtà del Mediterraneo, defunto, e attraverso la legge del chiodo scaccia chiodo, sopravento, lasciano gonfiare le loro vesti al suo respiro e alzano tempesta.


¹ composizione su interviste a Franco La Cecla


foto di Margherita Caprilli


Della sua veste non c’era vestito più nero
Giada Borgagni


Valentina Medda, artista di origini sarde, ricompone in chiave minimalista, la pratica tradizionale del pianto funebre radicata nella cultura del Mediterraneo. La performance si è svolta nella spiaggia libera del porto riminese, dove il grigio del cielo riflesso sull’acqua, ha fatto da tela alle prefiche esperte del lamento.

Al pubblico si apre sin da subito lo scenario sul mare, luogo simbolico, a far da tela alla performance.

Il mare è passato a condizione di estensione del corpo, davanti a cui le dodici figure protagoniste della performance, hanno riprodotto antichi repertori del pianto e del lamento. Il pianto stesso si è esteso all’acqua, che non ha solo funzione di elemento, ma è contenitiva di tracce, un corpo in acqua che perde pezzi: cellule epiteliali, sangue, muco, secrezioni, peli. Una poetica della perdita paragonabile alla pulizia rigenerativa intrinseca nella lacrima. In quest’operazione di estrazione d’acqua, che il corpo svolge durante il pianto, è il mare stesso a farsi corpo: un corpo cadavere abitato dai lamenti di chi in acqua ci è morto. Questo nuovo spazio di gestazione del lamento, è uno spazio intimo, chiuso, protetto, che racchiude in sé tutti i tratti che la perdita necessita. In un’idea del Mediterraneo che non può dividersi, l’acqua non conosce confini, li ha unicamente per identità eurocentrica. E dunque il pianto inizia il suo tragitto dall’occhio fino ad andare a gonfiare l’onda del mare. 

Dodici sagome femminili in abito nero si sono materializzate lungo una processione, percorsa dalla duna di sabbia perpendicolare al mare, ai relitti di molluschi lasciati sulla battigia. Smuovendo impronte sulla sabbia, le prefiche hanno attraversato un’asse d’aria diagonale, fino a creare una geometria a mezzaluna. Con il volto rivolto verso il mare, le esperte del pianto si sono addensate nell’emulazione del rito, accompagnato da registri del lamento avviati in sottofondo. Il suono del dolore risuonava dalle casse posizionate alle spalle del pubblico, a lato opposto rispetto il risucchio delle onde. La processione si è conclusa ad un passo dal mare, che ha attirato a sé lo sguardo delle prefiche, dove ha avuto inizio il coro dei movimenti. Dal tocco della fronte all’apertura delle braccia che han preso sembianza ali di corvo; al tocco dei capelli fino allo sfilare dal petto il ‘’peplo’’ nero. Il lamento udibile dalla cassa simulava fonemi e sibili, come fosse un traboccare di masse informi d’acqua, minime e enormi. Le sagome avvicinandosi ci sono apparse in ultima forma come un grumo nero; che convoglia le energie all’interno del gruppo, assorbendo i gemiti rimasti. Medda nella ricostruzione iconografica del rituale ha ridotto all’osso i gesti estrapolando i movimenti base come il tocco. 

Trovandoci sulla spiaggia libera di Rimini, in una giornata ombrosa, in cui lo spettatore è quasi piegato dal vento che soffia, è immediato il pensiero di non trovarci davanti una spiaggia qualsiasi. Rimini porta con sé un background culturale e storico specifico, ed è emblema della riviera romagnola. Attribuire il rimando di ‘’luogo sacro’’ alla spiaggia libera del porto, è quanto mai complicato, se non lontano dalla lente dello spettatore riminese.

Luogo privilegiato del camuffamento, dell’illusione e dell’irrealtà, Rimini costituisce a tutti gli effetti un perfetto esempio di non-luogo postmoderno nel quale si evidenzia come principale elemento seduttore il carattere carnevalesco, cioè la possibilità di “trasgredire e invertire le norme sociali abitualmente condivise nella vita quotidiana”. Rimini crea quesiti sui binomi realtà/illusione, vero/falso, sostanza/apparenza, interiorità/esteriorità (Righi A., 1985).

Ma è forse spogliando la città di Rimini, dagli sfarzi e dall’appellativo di ‘’città mondana’’ che riusciamo a immergerci completamente nell’esperienza che contrassegna il suo Mare: l’essere una città ninfa, come Teti, in grado di trasformarsi in serpente e in leone, di avere tratti mutaforme, personificando la natura del mare in tutte le sue sfaccettature. 



Un’alba nella secca del mare ho inciampato

in un grumo molle scuro, come una medusa.

Si scosse, si levò, ingigantì, piagata. Della sua veste

non c’era vestito più nero.

Teti, solo quella veste ti rivelava.

Eri piagata, informe, morsa dai pesci e dai granchi,

una crosta di madrepore e di sale,

un corpo qualunque di annegata,

rigettato dalle onde…

Teti, Rosita Copioli

foto di Margherita Caprilli


Yet another last lamentation
L’ennesima ultima lamentazione
Gabriele Germano Gaburro

Mare magnum, mare nostrum.
Mediterraneo: genesi e genocidio. 
Archivio osceno di naufragi che sbratta la vergogna grande, la vergogna nostra. 
Plastica e migranti. 
Salvare vite non intrattiene, meglio non investire... e la violenza si ripete, con orribile cadenza, da piano aziendale. Articoli scaduti, corpi migranti che non migrano più, interrotti sulle rotte della speranza da una tempesta senza soccorso. Pacchi di carne galleggianti, impiccati al gadget di un salvagente, approdati alla deriva di un oblio precoce, che dispensa a indennizzo la ninna nanna salmastra delle onde in campo largo, maestose e indifferenti. 
Così madre mare culla nella tomba i suoi figli in sfacelo, la loro rovina di liberati, estinti in balia del volubile elemento, rilasciati al flusso senza più reticenza.
Chi recherà fiori alle liquide lapidi? 
Chi inciderà nomi nell'acqua? 
Chi, in quella fossa comune, anagrafe di addii. 
Cimitero grande, cimitero nostro. 
Un giorno nessun riguardo sarà dovuto agli assenti, nessun ricordo a quei destini mancati. Ogni pezzo dei loro corpi disfatti si distramerà nello sconcerto di anamorfosi feroci, in avvinghio mordenti sulle salme inermi, snaturate nello scherno di smorfie mostruose. E il sangue, appassito nell'acqua, sfilerà nudo ed evanescente nella vicenda alterna delle correnti.
Finché il mare stesso non sarà prosciugato, e allora, sgomberato il fondale delle sue acque insondabili, loro riaffioreranno, trasfigurati in una pace d'apocalisse, sparsi nell’eccedenza di ciottoli levigati. 
Tutto evacuato, nulla avanzerà, eccetto gli avanzi: quel resto infinito di vita minore per cui noi non avremo mai il tempo.



 

 
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