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SILVIA CALDERONI + ILENIA CALEO
La traccia come memoria e contaminazione
Rebecca Diana Ricciolo

Riprendendo il lavoro “Zen for Head” di Nam June Paik (artista statunitense pioniere della videoarte), Silvia Calderoni e Ilenia Caleo lasciano una traccia liquida e immanente in spazi molto diversi tra loro. Il lavoro di Paik prevedeva di immergere il capo all’interno della pittura, lasciando una o più righe sulla carta come traccia; ciò non solo consente a chiunque di poter riprodurre la performance, bensì di lasciarla aperta al pubblico, allo sguardo e all’immaginario di chi guarda. Nel lavoro di Calderoni e Caleo innanzitutto c’è una scelta spaziale specifica. 
 


foto di Rebecca Diana Ricciolo




La loro esecuzione, infatti, avviene sulla sommità di un edificio, il tetto. Ciò crea una suggestione non indifferente innanzitutto per una questione sonora, che è cara a tutta la rassegna, poiché questa scelta cristallizza e parcellizza il suono in unità eteree ma presenti, meno disturbanti o opprimenti delle tonalità percepibili sulla strada. Questo lavoro, oltre che a proiettarci quindi in una dimensione sonora privilegiata, ci permette di sperimentare la singolarità del luogo. Il tetto, proprio come i non-luoghi di cui abbiamo più volte parlato durante le giornate di Supernova, è una realtà che trascende ogni forma egemonica di controllo, che non è soggiogato a costrizioni specifiche e che, soprattutto, è un dove entro il quale la dimensione di pubblico e privato si assottiglia a livelli estremi. Una scelta che si va ad accordare perfettamente alla performance che vede coinvolta Silvia Calderoni nel trasporto di due sacchetti colmi di liquido, che vengono perforati e trascinati nello spazio. Due teli, uno bianco e l’altro nero, su cui il liquido viene versato attraverso un campionario di movimenti semplici, e successivamente portato dalla Calderoni in prossimità del pubblico. Movimenti ritmici, i suoi, che non sono agiscono da dialogo temporale con la scena ma sono capaci di creare una specie di trance ipnotica in chi guarda. L’apice di questo atto performativo lo si raggiunge quando la ritmicità viene interrotta da una serie di salti e movimenti schizofrenici della performer, che sparge il liquido attorno a sé e in lontananza, creando macchie sia nel suo raggio d’azione che direttamente su sée stessa. È inevitabile arrivare a questo momento della visione senza pensare che ci sia una correlazione fondamentale tra acqua (e ciò che essa trattiene con sé, come le sostanze tossiche e inquinanti) e contaminazione. Le performer ci guidano, con la lentezza di uno spazio senza padrone e senza determinazioni di tempo serrate, non solo attraverso a un disegno lasciato dal liquido che maneggiano, ma alla sua bruttura, la sua possibilità di agire in uno spazio e deturparlo, lasciando segni indelebili. 

foto di Rebecca Diana Ricciolo


La loro vicinanza e lontananza col pubblico attorno, dal quale non hanno limitazioni spaziali, fa sì che i getti dell’acqua arrivino sin di fronte a chi guarda, toccandone talvolta i corpi. Questa quarta parete liquida è proprio uno dei punti focali su cui si erge la performance: siamo tutti, irrimediabilmente, contaminatori e contaminati da sostanze infestanti che, con la stessa facilità dei liquidi, toccano e s’innestano in ognuno di noi. 
Non si può più sfuggire alla chiamata, sempre più politica, di prendere parte alla crisi sociale, ecologica, umanitaria cui stiamo assistendo nella nostra quotidianità; è perciò reale che, il giorno in cui avremmo preso parola, avremmo lottato per qualcosa di fondamentale al mondo in cui desideriamo vivere, non sia lontano affatto. Quel presente è oggi ed è già parte di un atto in divenire, si sta muovendo, sta già assumendo forme sempre più varie. La contaminazione, che dovrebbe rappresentare uno dei più grandi risultati del nostro secolo, diviene un fatto perturbante: la possibilità che non ci sia speranza alcuna. 





 
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