Tirannosauro, un nascondiglio scomodo
Emma Cortesi
Quando in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è finita, si dice. In realtà la famiglia se la caverà alla grande, come è sempre stato dall’alba dei tempi, mentre sarà lo scrittore a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi”.
Penso a questo incipit di Veronica Raimo ogni volta che parlo con una persona stanca di vedere in scena o di leggere storie che si presentano nelle sembianze della cosiddetta autofiction.
Come se tutte le altre storie (quelle degne di essere raccontate) non fossero altro che autofiction in cui autrice o autore avevano la necessità di nascondersi in modo diverso. Di nascondersi di più. A chiunque sospiri ma quanto ci vuole a inventare una storia… quando si confronta con opere che si confondono con la vita di chi le ha scritte, vorrei rispondere che non c’è niente di più difficile e atroce che inventare un modo di raccontare la propria, di storia.
Ѐ difficile buttare sul tavolo il proprio cuore pulsante e alzare il sipario, credo che la fiction esista anche per questo.
Non è una questione di prendere tempo, di edulcorare o di girarci intorno: alcune storie, proprio perché parlano terribilmente di noi, devono esordire con svariati minuti di scoregge vaginali.
Per raccontare certe storie le condizioni devono essere favorevoli, gli alberi devono poter parlare (possibilmente con traduttrice simultanea) e tuo padre è meglio averlo al guinzaglio, tuo padre calvo e visibilmente più giovane di te.
Nonostante i tentativi, Tirannosauro rimane un nascondiglio scomodo per chi lo ha scritto.
Dico scomodo perché dalla mia poltrona era facile vederlo, in piedi, al microfono, con il suo plico di lettere in mano, quando le condizioni per raccontare quella storia non erano più tanto favorevoli e ormai diventava chiaro perchè prima di quel momento c’era stato bisogno di ridere.
Il montaggio delle scene non è lineare né omogeneo e soprattutto è imprevedibile. In ogni momento è impossibile immaginare cosa verrà dopo. Sembra di assistere a una di quelle prove che contengono tutti i pezzi pronti ma non ancora assemblati, e il senso di instabilità che ne deriva mi ha messa nella posizione di attendere protesa con le mani formicolanti, come fossi pronta ad afferrare un oggetto fragile che poteva cadere da un momento all’altro.
Anche le metainterpreti, Caterina Benevoli, Elena Maria Antonello, Norman Quaglierini, e Laura Serena, una dopo l’altra, dopo essersi esibite in una sequenza di monologhi-esercizi assurdi/feroci/spassosi, rimangono sul palco per assistere a ciò che viene dopo.
Questa attenzione assoluta a tutto ciò che succede, alle storie che escono fuori come fazzoletti colorati dalla manica di un mago, distrae da quello che ribolle sotto, in fondo, che nel mio caso è emerso mentre l’ultimo personaggio, lo sguinzagliato Luca Galizia, la faceva finita nell’unico modo sensato per questa storia sconclusionata: cantando.
Mentre lo ascoltavo l’ho sentito, il grumo, il sasso duro che si era formato indisturbato nel corso dell’ora precedente, un’ora che sembravano mesi e anni e anni e anni e d’un tratto facevano male anche se erano lontani e non erano capitati a me e ho capito qualcosa che non saprei dire neanche volendo (e io comunque non voglio) e ho capito perché non c’era un altro modo di raccontare quella storia.
foto Margherita Caprilli
Tirannosauro
Cosa fa l’eroina all’amore?
Quanto è tossica la famiglia?
Due persone distanti che possono solo scriversi lettere, alcune sono state conservate, altre perdute. Questo scambio epistolare diventa un fossile gigante, uno scheletro ingombrante che riemerge per farsi spolverare e studiare, un tirannosauro con cui “giocare alle risposte” all’interno di una struttura frammentaria e sconclusionata dove le uniche regole sono quelle di una persona piccola che gioca. Filippo Quezel porta in scena un’indagine sulla famiglia, i suoi ruoli e le sue tossicità che è anche la possibilità di riscrivere le lettere perdute per completare un dialogo analogico in via d’estinzione. Per fare questo si ispira all’artista Andy Kaufman. Spesso menzionato come comico, Kaufman preferiva tuttavia descrivere se stesso come song and dance man. Una volta disse in un’intervista: “Non sono un comico, non ho mai raccontato una barzelletta. La promessa del comico è che ti farà ridere con lui. La mia unica promessa è che cercherò di intrattenervi nel miglior modo possibile.”
Bio
Filippo Quezel ha studiato presso lo Stella Adler Studio di New York. In teatro ha lavorato con Babilonia Teatri, Lucia Calamaro, Andrea De Rosa, Ferdinando Bruni, Francesco Frongia, Giuseppe Emiliani, Massimo Somaglino e Nicoletta Robello. Per il cinema e la televisione lavora con Luca Guadagnino, Simone Rovellini e Roberto Saviano. Scrive e dirige il corto “Tinder” (premio del pubblico e menzione speciale della giuria al Lago Film Fest 2022). Dirige il documentario “Non lo so” selezionato alla 27° edizione di Visioni Italiane e proiettato alla Cineteca di Bologna). Scrive e dirige la mise en espace “T’ank you veddy much” prodotta dal TSV. Scrive e dirige “Tirannosauro” prodotto da TSV e Sardegna Teatro. Ha collaborato con il festival internazionale di danza Prospettiva Danza Teatro. Collabora con MOTUS come aiuto regista e videomaker nel film documentario ODIO prodotto dall’Italian Council.