Tra onde, bagliori e tenebre  
Clara Fedi

19.04.2024

Ciò che più mi piace dei festival è la resilienza del teatro in spazi che non gli appartengono e il mondo umano che si porta appresso.

È sera presto, anche se è tardi per essere solo l’ora del tramonto.

Siamo su un tetto del centro storico di Rimini e tutto intorno si possono osservare quegli edifici che portano con sé il ricordo di una guerra recente, quella guerra che tra il ’44 e il ’45 distrusse tutto ciò che oggi è Rimini, cancellandone pure il ricordo, l’identità. Da questo tetto guardo i suoi edifici, ora accarezzati da alberi e parchi che si muovono con la brezza serale di aprile.

È la ricerca dell’arte in luoghi poco predisposti a rendere interessante il processo della performance, a rendere interessato lo sguardo degli spettatori. Supernova esiste da qualche giorno, oggi è il primo a cui io assisto, e ciò che mi colpisce è la vita che si muove negli spazi della città. Come piccoli rivoli d'acqua che si sposta a seconda della corrente e che travolge le strade, i bar, le piazze, arriva persino in cima ai tetti.


foto di Margherita Caprilli


The future is now/Silvia Calderoni, IleniaCaleo

Ci sono due teli vuoti, uno completamente bianco, uno completamente nero. Silvia Calderoni e Ilenia Caleo. Delle buste di plastica, una serie di liquidi e di colori non ben identificati. 

Il futuro, penso, è l’opera fatta e finita, ora, però, c’è da darle forma. 

Il futuro, penso, è una condizione temporale in divenire, un tempo a cui, per arrivare, bisogna far passare altro tempo, che poi è quello del presente. È quel presente che si riempie di suoni, di colori, di odori e ci porta verso il futuro.

In questo presente, su quelle tele, un movimento è ripetuto. Due buste d’acqua colorata vengono mosse quasi meccanicamente da un corpo, quello dell’artista, mentre perdono liquido e perdono tempo, e colorano il suolo su cui passa Silvia Calderoni.

Se dovessi immaginarmi il futuro non so di che colore sarebbe, ma questa sfumatura di giallo data dal tramonto sulle pelli dei presenti, scolpita dal blu neon e dal giallo tenue sulle tele potrebbe esserne rappresentazione. 

Il tempo scorre e con lui il liquido delle buste, poi inciampa e salta su se stesso, ruota, cambia direzione, s’arresta, riparte. La tela bianca si colora di schizzi gialli fosforescenti, di cerchi scomposti, di chiazze e puntini. Sul telo nero, invece, i movimenti si ripetono ma al contatto con la stoffa, la reazione è altra. Si tratta della reazione ossidante che un corpo ha a contatto con la candeggina, che gli fa cambiare aspetto, colore, odore. Così, il telo nero si colora di schizzi, cerchi, chiazze e puntini che lentamente colorano il telo di marrone e poi di un rosso acceso.

The future is now, si tratta di sentire il tempo che scorre, ascoltarlo andare a ritmo, vederlo colorarsi, sentirlo rimbalzare e tornare indietro sotto forma di eco. Annusarne l’odore di varichina, osservarne il colore giallo fosforescente. Se io immagino il futuro non so di che colore sarà. 

E poi osservare il prodotto in corso d’opera, osservare la performer camminare e portarsi appresso l’idea di un progetto, l’obiettivo da raggiungere e nel frattempo lasciarlo realizzarsi tramite l’acqua che scorre sul suolo e sui suoi vestiti, macchiandosi di forme sempre diverse. Il movimento, le azioni, sono sempre le stesse, il risultato impercettibilmente diverso. 

Dopo un po’ le buste cadono, il liquido finisce, le tele si macchiano e stanno ferme. Silvia Calderoni si accarezza la faccia, sta ferma. Il tempo si acquieta e non fa più rumore. “Il futuro è adesso” e tutto ciò che ci ha lasciato sono solo delle tracce.


foto di Margherita Caprilli


Onde/Simona Bertozzi, Arianna Brugiolo, Rafael Candela, Valentina Foschi

Ci spostiamo al chiuso. Dentro il teatro, dietro il teatro. C’è una piccola sala molto scura con le quinte ai lati, delle poltroncine davanti alla zona del palco e delle figure già in scena,al buio, di cui si sentono gli spostamenti.

C’è un rumore di sciabordio d’acqua. Lo spettacolo si chiama Le onde ed è, in realtà, il titolo di un libro in inglese, The Waves, di Virginia Woolf. Il corpo mi precede, La porta si apre e la tigre balza, due frammenti, tre danzat*, corpi danzanti, tre onde, accompagnate nella loro danza da musica originale dal vivo. 

Il progetto di Simona Bertozzi, che inizia come ricerca paziente di una comunicazione fisica e al contempo grammaticale del corpo, decide di farlo attraverso il tema dell’acqua e la danza. Così inonda lo spazio di slanci sonori e fisici, gestualità corali e movimenti singolari. Corpi che perdono i loro confini fisici ed identitari, pelle che s’accarezza, si tocca, scivola e s’increspa. Corpi che si perdono tra i muscoli che affiorano nello spazio della schiena, delle braccia, delle gambe. Corpi annacquati, danzando per rimanere a galla, per cercarsi e trovarsi in un gioco di sguardi e di respiri silenziosi ma estremamente comunicativi. Solo quando si decide di lasciarsi andare diventa fondamentale affidarsi agli altri per rimanere a galla, insieme, in un mare il cui confine si perde, s’annacqua.

È complesso, penso, mettere in parole uno spettacolo di danza. Per questo, le uniche parole che mi sono segnata, che mi sono uscite spontanee, non sono in prosa ma una forma di poesia intesa nella sua forma più letteraria.  

Vanno, vengono, ritornano, ogni tanto si fermano, diceva uno che parlava delle nuvole, che poi non sono tanto diverse dalle onde, ché stanno entrambe inzuppate in un solco blu- profondo chissà quanto largo chissà dove- che noi possiamo solo osservare da lontano e immaginare.

Solo che le onde non si fermano mai.

Camminano in chissà quale parte del mondo, nascono silenziose, s’accarezzano, cambiano faccia, fanno un pezzo di strada assieme per poi perdersi al largo. Alcune coraggiose cominciano a correre, alla ricerca di cosa non si sa, forse solo dell’alterità, e dopo una corsa impazzita e cieca, si accasciano delicatamente, si lasciano andare, si lasciano sparire. E ci vuole delicatezza. Prima uno sfioramento, poi una carezza, poi un trascinamento. Si spiaggiano per un poco, mentre la sabbia si marea. Giusto il tempo di un abbraccio, giusto il tempo di un tuffo, per ricominciare tutto da capo. 

E noi, forse, vorremmo essere un po’ onde anche se onde non siamo. Ché siamo esseri umani e le onde le possiamo solo imitare, ché abbiamo un corpo che cammina alla ricerca di qualcosa, ché ci vuole coraggio per sfiorarsi, guardarsi, sorridersi, amarsi. Ché facciamo pezzi di viaggio insieme prima che qualcuno si disperda al largo e qualcun altro prenda coraggio. Ché non siamo fatti per essere singolari, per stare da soli, ché gli altri li attraiamo come per forza centrifuga.

Siamo esseri umani e le onde le possiamo solo danzare, con le nostre ossa scomposte, un grande senso di appetito nello stomaco e gli occhi lucidi. 

E che per trovare ciò che cerchiamo, forse, ogni tanto, basterebbe fermarsi, come le nuvole, per ascoltare il suono delle onde infrante

sulla battigia. 

Alla fine della performance s’alza il sipario, nel senso che lo spettacolo finisce ma il teatro si scopre, alle spalle de* danzat*, nel suo spazio più conosciuto dagli spettatori. La platea, i palchi, le gallerie, il loggione, si stagliano, luminosi, bellissimi, colorati ma vuoti alle spalle de* danzat* e, per una volta, si lasciano guardare e diventano lo sfondo.

Alla fine della performance, Arianna Brugiolo, in piedi a fianco di Rafael Candela e Valentina Foschi, gli altri due ballerini, e Luca Perciballi il musicista, legge “vogliamo tutt’altro”, manifesto politico di un’attualità sferzante, ed io penso che già stare lì, sedut* per terra, guardando quella sala di teatro vuota, sia un inizio.




foto di Margherita Caprilli
foto di Margherita Caprilli




Manfred/Maddalenareversa, Maria Alterno, Richard Pareschi

L’ultima performance serale, racchiusa all’interno di un’altra delle stanze del teatro Galli, annebbiata dal fumo e inscurita dal buio della sera di fuori, e delle luci spente di dentro, riparte, anch’essa, da un libro.

È il 1816 quando nell’arcipelago indonesiano della Sonda il vulcano Tambura erutta, provocando la più grande eruzione vulcanica a memoria d’uomo. Uno in particolare, di uomo, decise, al tempo, di segnare per i posteri le proprie impressioni, per insegnare, per non dimenticare. Quest’uomo era Lord Byron, che nel 1816 si trovava sul Monte Bianco, e a partire da quell’”anno senza estate”, nell’opera Manfred, comincia a raccontare del rapporto tra uomo e natura.

Durante la performance Maria Alterno recita alcune parti di testo assieme a Richard Pareschi, che si occupa invece della parte musicale, riprendendo le musiche che Schumann stesso produsse a partire dalla lettura di Manfred. Il lavoro fonde una drammaturgia- proveniente da un contesto di ricerca teatrale- a un tipo di teatro molto vicino al concetto di performing e Visual art. L’atmosfera è volutamente cupa e fredda, genera un certo senso di inquietudine, acuito a livello uditivo da suoni profondi, metallici, ripetuti, che rimandano a un inferno di anime in attesa, ed a livello olfattivo dal forte odore di incenso. C’è qualcosa di rituale che ritorna durante tutta la performance, e in senso lato che un ci parla da lontano, raccontando storie ancora vicine: l’esistenzialismo di un uomo che, nel confronto con la sublime e matrigna natura, si interroga sul significato della propria vita, della morte eventualmente, del confine labile che sussiste tra questi due stati.

In un rapporto tormentato di fascino e repulsione, i suoni si fanno insistenti, gli odori pungenti, la voce calda che recita ci chiede il conto dei danni subiti e perpetrati. 

Nella stanza è tutto buio, l* spettator* rimangono sedut* in silenzio, ma nel frattempo le immagini di quel mondo, di quella natura, di quella minaccia, arrivano chiare come la luce del sole. Un dipinto romantico e niccianamente poetico e dionisiaco, una natura aspra e minacciosa, specchio della crudeltà umana e degli eventi sanguinosi della Storia, che caccia e rifiuta l’uomo invece di accoglierlo.

“Ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista, e percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte su le cervici dell’Alpi, altre Alpi di neve si immergono nel Cieli e tutto biancheggia e si confine (…) La natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia da questo suo regno tutti i viventi” scriveva un altro, nello stesso periodo di Byron ma in Italia. Il progetto Madalena reversa, già presentato in vari festival e venue del panorama italiano, guarda dall’alto di quelle montagne questa natura, questo panorama, e ci lascia con uno strano senso di amarezza misto a dolcezza, che forse è la malinconia, forse la paura, forse la semplice e dolorosa condizione umana.

foto di Margherita Caprilli



 
                                                                                                   @supernova2024